Inizia il giro di saluti al lavoro, al termine della stagione oramai agli sgoccioli. Purtroppo, come sempre, non c’è possibilità per un precario di stabilizzarsi: noi siamo usa e getta, e dopo di noi verrà qualcun altro.
Di per se, la conclusione dell’ennesimo contratto di lavoro non mi fa ne caldo ne freddo. Oramai mi sono rassegnato, per il semplice fatto che la situazione è letteralmente degenerata negli anni, e superati i trent’anni è un po’ come se fossi “scaduto”, passato, anche se con specifiche competenze o abilità.
Vallo a capire, questo mercato del lavoro. Quello che però ho capito, oggi, è che non è per tutti la stessa minestra. E me ne sono reso conto, ingenuamente, quando cercando un collega per salutarlo l’ho trovato che piangeva in magazzino. Piegato su se stesso, ricurvo, pieno di vergogna al punto da non volersi fare vedere da nessuno.
Cosa può spingere un ragazzo di appena trentun’anni a ridursi così? Davvero un lavoro precario e malpagato (perchè le assunzioni si fanno a 24 ore settimanali, ed anche meno se si potesse) rappresenta così tanto per lui? Evidentemente si. Sopratutto quando si ha famiglia, figlii, compagne a carico… non è facile.
E tra una cosa e l’altra, mi ripeteva: “Ch’é fàr? Ch’é fàr? M’é jìttàr àra màcchia?”. E li ti prende un brivido, e capisci che tutte le montagne di parole sulla legalità, sulla vita nel giusto, non sono altro che fuffa di fronte alla necessità. Quella vera. Quella in cui cadi non per toglierti gli sfizi o vivere nel lusso, ma per far mangiare la tua famiglia.
Siamo nel 2024, ma sembriamo un secolo indietro.
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