Ieri sera, dopo una lunga giornata di lavoro, mi sono ritrovato sulla banchina del porto per una “missione di soccorso” che in realtà era tutt’altro. L’intera questione è stata comunicata poche ore prima, con poco margine di tempo per accettare o meno. Ed io ovviamente ho accettato.
Quello che però doveva essere un supporto per uno sbarco, era un supporto per un trasbordo di cadaveri: 5 per la precisione, tre donne (tra cui una bambina ed una adolescente) e due uomini. Corpi di vittime recuperate al largo dell Jonio, dopo il naufragio del 17 giugno scorso, stoccati in un container-congelatore della Croce Rossa.
Non proprio una di quelle cose che vai a fare volentieri, il lunedì sera. Ma tant’è. Circondati da forze dell’ordine abbiamo allestito rapidamente un tavolo, uno di quelli che si usano in genere per mangiare… con la consapevolezza che non l’avremmo più usato. E poi abbiamo lasciato spazio ai medici legali.
Dopo tutti quei giorni in mare, non erano neppure dei “corpi”. Si riconoscevano per le articolazioni – spesso divorate dai pesci – e per qualche rado capello. Uno spettacolo straziante, un odore tremendo, uno stillicidio di acqua e carne da quei sacchi usati per “imballare” quei tizi pianti da chissà quali occhi.
Neppure l’attenzione per la partita della nazionale ha rallegrato i presenti, incupiti in particolar modo alla vista di quella bambina, quasi una bambola di plastica che trasudava acqua. Gli occhi spalancati, vitrei, le palpebre divorate, la bocca poco aperta… meno di dieci anni, senza una gamba persa nei giorni passati in acqua… lunga pausa dopo gli esami su quel corpicino.
È l’altra faccia degli sbarchi, quella di quando le cose vanno male. Quella che in genere non vedi in televisione, o nelle pagine dei giornali. È quella parte del lavoro che tocca solo a qualcuno, a partire dai militari e dai soccorritori che compiono questo macabro ripescaggio in mare.
Ed a vederli, quei corpi, mi chiedo se valga la pena ripescarli, scempiati come sono.
Lascia un commento Annulla risposta