Dopo aver scoperto il monumento alla memoria dei soldati austro-ungarici morti a Crotone come prigionieri, non ho smesso di interessarmi alla questione. Troppe domande, e sopratutto troppe poche risposte. Purtroppo, dopo aver consultato le poche associazioni interessate alla questione, tutto si è limitato ad una semplice conferma: Crotone ospitò dei soldati prigionieri di guerra, che qui morirono in un “campo di prigionia”.
Ma come ci sono finiti a Crotone ben 123 soldati austro-ungarici? E sopratutto, dov’era questo “campo di prigionia” di cui la storia sembra essersi dimenticato? Ed ancora, chi si è improvvisamente ricordato della loro presenza? Andiamo per ordine.
Il caso venne sollevato da un ufficiale dell’esercito italiano, il maggiore Ciro Cantore, che nel 1991 venne incaricato di individuare i resti dei soldati austro-ungarici in territorio italiano per trasferirli nel cimitero-ossario di Feltre. Solo nel 1993 otterrà l’indicazione, da parte della Croce Nera Austriaca, di recarsi a Crotone per rinvenire i resti di un centinaio di militi. Da li, la richiesta al Comune di ricercare gli ossari, che vennero ritrovati intatti nonostante le cattive condizioni della fossa comune: 123 casse di legno semplici ancora chiuse con su scritto il nome del defunto e, subito sotto in un rosso oramai sbiadito, “PRIGIONIERO”.
Secondo il maggiore Cantore, la città di Crotone, così come tante altre, ospitò uno dei 269 “campi di concentramento” per prigionieri austro-ungarici, nei quali vennero internati diverse centinaia di migliaia di soldati. Attenzione: sono certo che, avendo letto “campo di concentramento” la vostra mente sarà andata alle ingloriose immagini del secondo conflitto mondiale, ma il termine “campo di concentramento” all’epoca non aveva ancora assunto il macabro connotato che tutti immaginiamo. Era infatti un equivalente di “campo di prigionia”, e di fatti i militari (disertori o catturari) venivano inviati in degli accampamenti – inizialmente composti da tende, successivamente composti da piccole abitazioni-dormitori in legno o muratura – dotati di “cucine, infermerie, bagni, comandi, reparti di sorveglianza”, e da li potevano anche comunicare con le loro famiglie.
I campi avevano una funzione contumaciale, servivano ovvero ad internare i possibili portatori di patologie infettive. Dopo un primo periodo di quarantena, i militi erano liberi di girare all’interno del campo (dove, in alcuni casi, erano presenti anche dei piccoli empori), ed addirittura di uscire nei confini cittadini. Non tutti i campi però godevano di condizioni ottimali, e sono registrati anche episodi di abbandono totale dei prigionieri, morti per inedia, per il freddo o per malattie mai curate. A partire dal 1916 i prigionieri vennero impiegati come forza lavoro agricola (coltivazioni, rimboschimento, preparazioni dei terreni, costruzioni di sentieri ecc.). Nel 1919, finita la guerra, i sopravvissuti vennero liberati e tornarono a casa.
Sarebbe eccessivamente lungo tentare di spiegare il perché così tanti soldati austro-ungarici finirono a riempire i numerosi campi di detenzione italiani. Sintetizzando, possiamo dire che l’esercito non era più motivato a combattere: le divisioni interne nell’Impero Austro-Ungarico, la difficoltà di ottenere viveri e armi, l’impossibilità di contare su rinforzi e le notizie diffuse dai capi militari (che riportavano sul fronte le decisioni del governo, che intendeva “puntare alla pace” e chiedeva alle truppe di ritirarsi ed abbandonare i terreni occupati) fecero progressivamente sfaldare le fila nemiche.
Il contesto dunque è chiaro. Adesso, resta da capire perché alcuni di questi soldati vennero mandati a Crotone, e sopratutto dove vissero fino alla loro morte. L’ipotesi, avanzata anche da diverse associazioni culturali e di ricerca, dell’esistenza di un apposito campo di concentramento non mi ha mai convito: e dopo aver consultato le cartografie dell’epoca, e l’acquisizione di diversi documenti dall’Archivio di Stato, penso di essere arrivato ad un’ipotesi valida.
La città di Cotrone disponeva di una Stazione Sanitaria Marittima, che nel 1917 venne ampliata e migliorata. Stando all’unica relazione esistente, era dotata di 59 “ricoveri” contenenti 1258 posti letto, ed era divisa in quattro aree: osservazione, isolamento, riconosciuti immuni e servizi extra-contumaciali. Queste stazioni, costruite a ridosso dei principali porti nazionali, divennero obbligatorie a partire dal 1895, per contrastare la diffusione di malattie tramite le merci e le persone che giungevano via mare. La stazione crotonese era piuttosto grande: occupava un’area di circa 30.000 metri quadri lungo Viale Regina Margherita, tra il molo Giunti ed il molo Foraneo. Successivamente prese il nome di “Rione Sanità“, e più colloquialmente “i spitalètti“.
Di fatto, la Stazione Sanitaria Marittima era, a tutti gli effetti, una sorta di campo di internamento: era recintata da mura di cemento alte due metri, sorvegliate giorno e notte dalla marina. Vi era una sola via d’accesso ad ognuna delle quattro aree di cui sopra, e si poteva uscire su strada solo da un grande cancello, anch’esso sorvegliato. Inoltre, all’inteno non ci si poteva spostare liberamente, ed il passaggio di un internato da una zona all’altra avveniva solo tramite autorizzazione. Misure rigide, che servivano ad evitare ogni possibile contaminazione.
Non è dunque errato pensare che, anziché costruire un “campo di concentramento” ex novo, venne deciso di inviare quei 123 prigionieri austro-ungarici a Crotone proprio perché la città era già dotata di un’area contumaciale. La decisione di mandarli così a Sud non è inusuale come si potrebbe pensare, dato che esistevano altri campi anche in Sicilia, in Puglia e addirittura in Sardegna. Tuttavia, sfugge ancora la data precisa di questa decisione, che non risulta conservata né negli archivi catanzaresi né presso quelli militari.
Sappiamo però che questi 123 soldati, probabilmente appartenenti alla categoria dei prigionieri (magari dopo la Battaglia di Vittorio Veneto?) e non dei disertori, vennero inviati a Cotrone subito dopo la cattura, e dunque in regime di quarantena. Per avere maggiori informazioni in merito non possiamo far altro che sperare nella presenza di qualche fortuito documento finora non rinvenuto nell’archivio comunale, prossimo – si spera – all’effettiva digitalizzazione.
Pur non sapendo quando arrivarono, sappiamo che morirono tutti nel corso dello stesso anno, il 1919. In quegli anni anche la città di Crotone venne colpita dall’influenza spagnola, e nonostante gli sforzi del direttore della Stazione Sanitaria Marittima di Crotone, il professor Rosolino Ciauri, che non venne creduto quando per primo in Italia collegò le morti a delle “infezioni di tipo influenzale”, il contagio colpì diverse migliaia di persone, provocando altrettante morti.
Una storia vecchia, secolare per essere precisi. E a distanza di cent’anni, è doveroso ricordare anche questi avvenimenti. La città di Crotone ospitò e custodì i resi di questi uomini, fino a dimenticarsi di essi. Oggi, a testimonianza di questi nomi che oramai non sono altro che dei lontani ricordi di un passato svanito nel tempo, resta quel monumento nel cimitero comunale.
Ad eterna memoria delle tristi realtà della guerra, e di come queste affliggano anche dei luoghi geograficamente lontani ed apparentemente incollegabili tra loro.
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