Basta andare un po’ a largo, poco dopo le scogliere, dotati giusto di tubo e maschera. Osservando il fondale non si farà fatica a notare numerosi cumuli di sabbia, a forma di cono, che saltano immediatamente all’occhio: non seguno le linee del fondale, e la sabbia sembra di un colore leggermente più scuro.
Mettete da parte congetture e complotti: è il nascondiglio del Murice Comune, scientificamente noto come Bolinus brandaris. Parliamo di un mollusco ben radicato in tutto il Mediterraneo, meglio conosciuto nel sud Italia come scuncìglio (sebbene questo nome si riferisca, indistintamente, anche ad altri molluschi utilizzati nella cucina popolare), e conosciuto dai più per la sua particolare conchiglia spinosa, dotata di aculei piuttosto lunghi e pungenti.
In passato il murice veniva regolarmente “pescato” anche nel mare cittadino: come molti molluschi comuni veniva impiegato nella preparazione di zuppe di mare, visto il suo sapore forte e acidulo. Con il passare degli anni – e dei gusti – il mollusco passò in secondo piano, ed oggi viene raccolto solo da qualche amatore.
Il disinteresse nei confronti del Murice gli ha permesso di ripopolare l’intero bacino urbano, tant’è che se ne possono osservare a dozzine appena al di sotto della sabbia. Il mollusco vive in acque profonde fino ad un centinaio di metri, e si nutre di altri pesci e molluschi: secerne una sostanza acida, in grado di perforare anche il carapace di piccoli granchi. Generalmente innocuo per l’uomo, potrebbe provocare qualche irritazione da contatto. Nulla di grave.
Oggi si tratta, a tutti gli effetti, di un animale poco considerato, del quale ci interessa principalmente per la sua conchiglia che si presta naturalmente come particolare ornamento. Eppure, il Murice ha una storia antichissima ed importantissima, che affonda le sue radici nelle leggende pre-elleniche.
Dal Murice, infatti, si ricavava la porpora reale: uno dei colori più costosi ed importanti dell’antichità, che accomunò i regnanti (ed i benestanti) tanto nell’antica Grecia quanto nell’antica Roma. Pensate che da ogni mollusco si può estrarre una sola goccia di “colore”, e che per realizzarne un grammo servivano circa 8000 molluschi.
Un’impresa non da poco, che di fatti rendeva la “pesca” al Murice un’attività molto remunerativa. Migliaia di uomini erano impiegati quotidianamente, sulle coste di tutto il Mediteranneo orientale, nella ricerca di questi animaletti nascosti sotto la sabbia. Ed altrettante persone erano incaricate alla lavorazione ed alla trasformazione del succo in colore vero e proprio. Insomma, una vera e propria catena umana dedicata agli abiti di lusso del tempo, se così si può dire.
Ma come venne in mente di spremere un mollusco per ottenere un colore? Una domanda lecita, la cui risposta si perde nelle mille sfumature della leggenda. Sappiamo per certo che il colore venne scoperto dai Fenici, per poi diffondersi in tutto il Mediterraneo: ogni paese vantava una sua sfumatura del colore, che variava dal viola al rosso.
Secondo la leggenda, tramandata – tra gli altri – da Cassiodoro e Gregorio Nazareno, a scoprire il colore fu un cane. Ma non un cane qualunque: si trattava infatti del cane di Eracle, che all’epoca si sarebbe trovato in fenicia assieme a Iole (altre fonti invece parlano di una giovane di nome Tiro). I due amanti si trovavano su una spiaggia, quando il cane si allontanò improvvisamente, per poi tornare con qualcosa in bocca. Questo era tutto sporco di rosso, per cui i due pensarono si trattasse di sangue: ma al momento di controllare l’animaletto, videro che questo non era ferito, e che il colore proveniva dal mollusco che aveva tentato di mangiare: il murice, per l’appunto. La giovane quindi chiese ad Eracle un vestito di quello stesso identico colore, senza il quale non l’avrebbe mai accettato come amante. Ed Eracle, di santa pazienza, pare si mise a raccogliere decine e decine di conchiglie per poi estrarne il colore, ed intingere così la prima veste.
Come ogni leggenda, è da prendere con le pinze: il mito attribuito ad Eracle (e successivamente ad Ercole) pare appartenga, originariamente, a Melqart, figura mitologica fenicia protettrice, guardacaso, della città di Tiro, nell’attuale Libano. È altamente probabile infatti che la leggenda ellenica si sia “mischiata” con quella ben più antica di origine fenicia, prendendo in prestito i luoghi e sostituendo i soggetti. Non ci sarebbe da stupirsi più di tanto.
Oggi, per fortuna, questo piccolo mito è sopravvissuto, così come il murice stesso, che è tornato a ripopolare le nostre coste, portando con se un fardello di storia ben più grande del suo piccolo “guscio”.
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