Non si fa fatica ad associare il brutto temporale appena passato ad una vera e propria alluvione. Un po’ tutti in città abbiamo rivissuto quegli attimi di ventidue anni fa, rivedendo quei nuvoloni scuri, cupi, pesanti, e quegli “attacchi” di pioggia intensi, forti. Abbiamo avuto paura, e si è trattato di una paura più che giustificata: tra il 5 ed il 6 ottobre sono caduti, sul solo territorio di Crotone, oltre 600 millimetri di pioggia ed oltre 9000 fulmini. Una tempesta, per davvero.
La situazione è stata decisamente seria, al punto che, con il timore di una doppia esondazione – dell’Esaro e del Neto – si è proceduto all’allestimeno non solo di un centro per gli sfollati (circa 200 persone in via preventiva), ma anche la realizzazione di un vero e proprio piano di evaquazione per migliaia di persone. Sempre in via preventiva, il sindaco Pugliese ha emanato un obbligo di chiusura alle attività commerciali, invitando tutti a stare in casa e, possibilmente, ai piani alti. La macchina ha funzionato molto bene, e bisogna ammetterlo.
Ora che il peggio è passato, è tornato il sole con quasi 30°. In città si contano relativamente pochi danni, nonostante le strade ridotte a delle groviere (le pozze d’acqua da qualche parte dovevano pur defluire) e la caduta di due muri, uno in Via Matteotti, pericolante dal 2016, e l’altro nei pressi della Montessori. In fondo lo sapevamo già, di avere un problema con i muri. Nessuno si è fatto male, nel crotonese: non ci sono stati morti o dispersi, ed è stata salvata la vita anche a 250 cani che rischiavano di affogare.
Numerosi, però, gli allagamenti. Non solo scantinati e garage, ma anche campi e terreni agricoli, che hanno perso un’intero raccolto, e attività commerciali un po’ in tutta la città. Ma sopratutto, a finire allagata è stata l’Area Archeologica di Capo Colonna, che si è trovata letteralmente sommersa dall’acqua piovana. I muri dei vari edifici antichi hanno svolto la funzione di “piscinetta”, mentre i reperti al di sotto del livello del terreno sono stati ricoperti da acqua e fango.
Evitiamo di saltare a conclusioni affrettate: non c’è nessuna catastrofe in atto, e tutto è ancora al suo posto. Da sempre infatti i reperti di Capo Colonna sono esposti alle intemperie, e ciclicamente si riempiono di acqua piovana. Questa poi defluisce attraverso il terreno, e nell’arco di qualche giorno tutto torna asciutto. Il problema però è che questi accumuli di acqua non sempre fanno bene ai reperti archeologici, anzi, rischiano di comprometterli e di danneggiarli.
La lunga esposizione all’acqua infatti è un problema ben noto, e può provocare diversi danni. Potrebbe favorire muffe o radicazioni infestanti, influire nello sgretolamento delle pietre di tufo e arenaria, compromettere il sottosuolo, e sopratutto potrebbe “portarsi via” qualche reperto: pensate al mosaico nascosto al di sotto della ghiaia, di fronte allo spiazzo antistante la chiesa.
L’azione dell’acqua è inarrestabile, e Capo Colonna sembra impotente di fronte ad essa. Acqua che, da una parte è il mare che continua ad erodere la costa, mettendo a rischio l’intero promontorio, e dall’altra è la pioggia, che mette a rischio i reperti esposti, oltre che l’intera area archeologica.
Che fare? Aspettare che tutto si compia? Girarsi dall’altra parte, che tanto sono quattro sassi? Far finta di nulla, che alla fine sono sempre state così le cose? Forse, la popolazione tutta dovrebbe richiedere a gran voce ciò che nei parchi archeologici di tutta Italia sono oramai normalità: delle tettoie. A Pompei come a Roma, a Locri come a Sibari, da Taranto a Casignana, i reperti archeologici vengono coperti e tutelati dalla pioggia con delle strutture più o meno articolate, che non solo rendono fruibili i parchi archeologici anche in caso di pioggia, ma salvaguardano i reperti e favoriscono nuovi scavi.
Coprire i resti di Capo Colonna sarà il primo, vero passo verso una tutela del parco archeologico. Dobbiamo capire che i reperti non vanno solo scavati ed esposti, ma anche tutelati e salvaguardati, anche dal clima. Altrimenti, rischiamo di rivivere la storia dello “scoglio”, quell’enorme masso in bilico su un muro, di fronte alla colonna: caduto a causa del maltempo.
In passato una tettoia doveva essere installata, ma è stata considerata “troppo pesante” e dunque ipoteticamente pericolosa per i reperti sui quali avrebbe poggiato. Non se ne fece nulla. Così come pare non se ne sia fatto nulla di tutte le proteste di #OccupyCapoColonna, e di tutti quei movimentelli che hanno difeso (a parole) l’integrità del sito archeologico, proteggendolo dal cemento. Tutti diciamo di “amare” Capo Colonna, ma poi preferiamo lasciare il sito abbandonato a se stesso, per poi lamentarci che nessuno fa nulla.
Forse è il momento di cambiare atteggiamento. Forse è il momento di iniziare a vedere “quei quattro sassi” come un risorsa, e non solo come quelle cose da vedere durante il giro domenicale. Capo Colonna non è un luogo unico nel suo genere, e neppure inimitabile: Capo Colonna è un’area archeologica come tante altre, in Italia. E forse, è arrivato il momento di pretendere un trattamento alla pari, per permettere a tutti di usufruirne al meglio.
Fortunatamente, questa alluvione non c’ha portato via niente, e ci ha permesso di tornare a vivere la nostra normalità dopo appena qualche giorno. Si riparla, prontamente, della mancata prevenzione e della bassa percezione della pericolosità di certi eventi. E, tra un discorso e l’altro, sarebbe opportuno inserirci anche la tutela dei beni archeologici, fin troppo spesso considerati come “ornamenti” o “secondari”.
Se dobbiamo “salvare Capo Colonna”, salviamola per davvero. Pensiamo a coprire i resti esposti, pensiamo a progetti “innovativi” come delle tettoie fotovoltaiche. Pensiamo in grande. Che a furia di pensare in piccolo – alla crotonese -, rischiamo di non vedere mai valorizzata una delle aree più belle ed importanti della città.
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