Tra tutti i piatti tipici della tradizione culinaria locale, la vrasciòla è sicuramente la pietanza più iconica e più comune. Ogni domenica vagonate di vrasciòle invadono le tavole imbandite dei crotonesi in tutto il mondo, un po’ per tradizione, un po’ per abitudine, ma sopratutto per gusto: ogni famiglia custodisce più o meno gelosamente la propria “ricetta della nonna”, ed è ben fiera di impastare decine e decine di vrasciòle da far provare un po’ a tutti.
Insomma, dopo aver parlato della cuzzupa, della cuccia, della cucuzzata, e di vari e assortiti ciciumbò, è arrivato il momento di conoscere meglio – finalmente – la vrasciòla, un piatto così comune da essere dato per scontato, ma che dispone di una storia che merita di essere approfondita.
Partiamo da un’asserzione necessaria: la vrasciòla è una polpetta. Può sembrare un’affermazione scontata, ma braciòle e polpètte sono due piatti diversi: la braciòla è un taglio di carne magra, la polpétta invece è un impasto generalmente a base di carne tritata condita (anche se, originariamente, indicava un’involtino di carne ripiena). Perché allora la vrasciola si chiama in modo molto simile al taglio di carne?
Probabilmente, perché il termine braciòla deriva da brace, a sua volta derivato dal termine tardo latino brasìa. La brace, ossia i tizzoni ardenti di carbone, veniva utilizzata quotidianamente in passato, tant’è che ancora oggi c’è chi si ricorda la famosa vrascéra utilizzata dai nostri nonni, sopra la quale si posizionava l’altrettano famosa frissùra. A questo punto, non è errato pensare che vrasciòla sia un termine derivato dal fatto che si tratta di un alimento preparato sul vrascére, o comunque sulla vràce.
In calabria esiste comunque una distinzione tra vrasciòle e purpètte, pur essendo la stessa pietanza: le prime si friggono (oramai quasi esclusivamente in olio) mentre le seconde si cucinano in pentola. Un piatto tipico della tradizione calabrese, infatti, sono le purpétte au sùcu, per l’appunto polpette cucinate nel sugo.
Solo nel crotonese invece si è diffuso e radicato il termine “vrasciola” al posto di “purpetta”. Anche il polpettone viene chiamato “vrasciolone”, essendo ovviamente identificato come una grande polpetta. La diffusione del termine è relativamente tarda, avvenuta probabilmente a cavallo tra il ‘700 e l’800. Cercare di dare una spiegazione a questa forte radificazione è pressoché impossibile, ma per certo oggi parliamo di un termine diffuso anche fuori dal crotonese.
Appreso questo particolare, non ci resta che approfondire la storia delle polpette. In Italia, in modo forse un po’ troppo “patriottico”, siamo abituati a considerarle come un piatto tipicamente nostrano. In realtà, le polpette di carne sono uno dei piatti più antichi ancora oggi in uso, e se ne ha traccia fin dal 200 a.C.. La più antica ricetta di polpette finora rinvenuta infatti risale alla Dinastia Qin, attiva tra il 226 ed il 206 a.C.. Il piatto è noto da allora con il nome di sì xì wánzi (letteralmente: polpette dalle quattro gioie), ed è composto da un’impasto di carne di maiale macinata, uova, cipolle e zenzero.
É difficile dire, un po’ come con gli spaghetti, se anche le polpette ci arrivarono dall’estremo oriente. Quel che è certo è che le polpette di carne sono una pietanza diffusa e ben radicata un po’ in tutto il mondo, ed in special modo nel bacino Mediterraneo, fin da tempi remoti e non documentabili.
Anche i Romani disponevano di diversi piatti del genere, illustrati solo tra il 300 ed il 400 d.C. nella collezione De re coquinaria di Marco Gavio Apicio, e piatti del genere sono presenti in tutte le popolazioni antiche del medio-oriente, dell’est-europa e del nord-africa.
A partire dal primo millennio, sono note innumerevoli ricette di Kofta, appunto polpette di carne macinate e condite con i più svariati ingredienti. Il termine deriva dal persiano classico, ed indica tutta una sottocategoria di polpette cucinate dall’attuale Grecia fino all’India. Per intenderci, sono quelle polpette che servono all’Ikea: proprio recentemente è venuto fuori che si tratta proprio di una antica ricetta Turca.
A detenere il record inoltre sarebbe proprio la Turchia, che vanta un ricettario di oltre 291 polpette. 291 ricette dello stesso piatto, preparato in modo diverso da regione a regione. Un pratico esempio della diffusione e della radicazione di un piatto semplice e gustoso. Sempre dalla Turchia inoltre deriverebbe la classica forma a sigaro delle polpette, particolarmente diffusa fino ai paesi medio-orientali, oltre i quali vige la forma appallottolata.
Nel periodo Romano la ricetta si diffuse per tutto l’impero, raggiungendo dunque l’estremo occidente, tanto che le polpette – pur con le loro diverse forme – sono ritenute “piatti tradizionali” praticamente in tutta Europa. In Italia esiste un’ampia tradizione in tal senso, e comprende anche numerosi piatti non a base di carne (le polpette di melanzana, di fiori di zucca, di riso, di pesce). Differentemente da quanto si possa pensare, non si tratta di una ricetta “meridionale”: difatti le polpette sono diffusissime lungo tutta la penisola.
Nel nord-europa invece, a differenza della forma sferica utilizzata nei paesi medio-orientali e della forma cilindrica utilizzata più in occidente, le polpette vengono appallottolate e poi schiacciate. L’esempio perfetto sono le frikadeller danesi, che per molti studiosi di cucina non sono altro che le antenate dei più noti e famosi hamburger. In passato qualcuno provò a definire come polpette anche gli arancini siciliani, ma senza alcun seguito.
La vrasciòla è dunque un piatto unico più per il suo nome che per la sua ricetta. Anzi, per dirla in un altro modo: la vrasciòla è uno di quei piatti storici, che compongono la memoria collettiva del nostro mondo. Si tratta di una ricetta antica, diffusasi a livello globale per la sua praticità e per la sua bontà.
Insomma, ogni volta che mangiata una vrasciòla, mangiate un pezzo di storia. Una storia antica millenni, che ha accompagnato l’uomo un po’ ovunque, e che trascende la solita concezione di “piatto povero locale”.
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