Quando arriva il periodo delle feste, le tavole di tutto il mondo si riempiono di dolciumi di ogni tipo. E noi non facciamo eccezione: il periodo natalizio è probabilmente quello in cui disponiamo della più grande varietà di dolci tipici. E quest’anno li conosceremo tutti un po’ meglio, come già fatto con le cuzzupe.
Partiamo con le regine indiscusse delle tavole e delle vetrine dei bar: le susumelle. Fondenti o bianche, secche o morbide, glassate o ripiene, ognuno di noi ha una susumella preferita. Il dolce è tipico di tutta la regione Calabria, anche se in varianti, forme e farciture diverse. Spesso anche il nome del dolce è diverso, e vengono chiamate “pitte di San Martino“, che però è un’altro tipo di dolce, visivamente simile alla susumella ma fatto con ingredienti diversi.
La “variante crotonese” è diventata l’archetipo del dolce: mentre una volta venivano fatte “a cerchio” e senza glassatura, a qualcuno venne l’idea di farle ovali e ricoperte di cioccolato. Un’idea vincente, che segna anche un netto distacco con quella che è la storia del dolce: passò dall’essere uno “scarto da dare ai poveri” ad essere una golosa tradizione popolare. Un bel salto in avanti.
Non sono qui per parlarvi della “ricetta perfetta”, ma per approfondire il nome di questo dolce, l’etimologia di questo termine. Perché le chiamiamo “susumelle”? Un termine originale, che affonda le sue radici in una parola decisamente poco piacevole.
Cercando su internet, non troverete alcuna etimologia. Diversi siti e blog di cucina spiegano che il termine deriverebbe dalla parola “carezza”, per via della dolcezza del prodotto, ma c’è poco da fidarsi: è più probabile che questa attribuzione sia nata in tempi molto recenti, per trovare un significato. Ma nulla collega le due parole, né nelle loro accezioni latine né con altre lingue, romanze o meno.
Susumella non rappresenta neanche un termine proprio nei vari dialetti. Tuttavia, ha un solo corrispettivo, molto simile nella pronuncia ma con un significato completamente diverso: susumeda. Un termine poco nobile, che ci riporta negli anni bui della nostra terra. Con questa parola infatti si intendeva, originariamente, la carne andata a male, infetta. Questo termine sembrerebbe derivare dal greco σύς σύν μìδας (ossia “maiale punto da insetti”), ed è stato diffuso in tutto il crotonese, anche se oggi è ormai in disuso.
Ma com’è possibile che è passato dall’indicare della carne andata a male all’indicare un dolce? Potrebbe colparci un’usanza dovuta all’estrema povertà dell’epoca. Nei periodi di festa (specialmente pasqua e natale), le famiglie benestanti erano solite preparare dei piccoli pasti da regalare alle famiglie povere. In queste specifiche occasioni erano le nobildonne a fare il giro dei paesi, consegnando spesso dei piccoli panetti dolci (le cosiddette pitte e pittedde, motivo per cui le susumelle vengono indicate anche come pitte, ma ne parlerò meglio in un altro articolo). Facevano la carità, insomma. Purtroppo, molti di questi panetti erano spesso (e volentieri) dei veri e propri scarti alimentari, fatti con farine andate a male, miscele misere, ammuffiti.
L’uso della parola infatti, che intendeva solo la carne infetta, si è trasmesso più generalmente all’alimento infetto, ampliando le sue possibilità di utilizzo. Tutto poteva essere susumedu, dal latte al vino, dalla frutta al pane di segale, fino a diventare anche un insulto da rivolgere a qualcuno. Tutto ciò che non è più commestibile, che è andato a male, che si è “infettato”. Non è così assurdo pensare che si sia legato proprio a quel tipico alimento che veniva puntualmente consegnato durante le festività natalizie, proprio perché nella maggior parte dei casi era qualcosa di immangiabile.
Non è comunque detto che tutti consegnassero dei dolci così orribili: prima dell’ingresso del cacao in Europa, i “pani dolci” erano arricchiti con pezzi di frutta e uva passa, caratteristica proprio delle susumelle classiche, alle quali è stata aggiunta solo la glassatura al cioccolato. La ricetta “moderna” risale ai primi del ‘900, quando già da decenni nelle case si glassavano con l’annaspro. La susumella, in ogni caso, è un “dolce povero”, fatto con pochi ingredienti e piuttosto sostanzioso (che riempiva lo stomaco).
Esistono diverse varianti del termine, che vanno dal più generico sursumìdu al termine presilano sùssumu, passando da sùrsumu, susumìdu e susumùddu. Tutti si riferivano, in senso generico, a qualcosa andato a male. Oggi questi vocaboli sono in disuso (e sostanzialmente sconosciuti), mentre susumella sembra essere l’unico sopravvissuto.
Si può dunque ipotizzare che susumella sia una sorpiatura di susumeda, un termine diventato indicativo dei pessimi dolci consegnati nei periodi delle festività alle famiglie povere. Il termine ha subito diversi mutamenti nel corso dei secoli, e dalla pessima carne di maiale è passato ad indicare un ottimo dolce di natale.
Adesso, quando l’amico di fuori a cui le state facendo provare vi chiederà perché si chiamano così, saprete cosa rispondergli 😉
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