Tra i tanti tabù del Pitagorismo, quello più conosciuto è senz’altro quello delle fave. I Pitagorici infatti avevano un rapporto decisamente particolare con questo legume: non solo non lo potevano mangiare, ma non potevano neanche toccarlo. Dovevano stare alla larga da tutta la pianta, per quanto largamente usata all’epoca.
A dimostrazione di quanto questo precetto fosse importante, ci basta menzionare le storie riguardo la morte di Pitagora. Diogene infatti ci racconta che Pitagora dovette improvvisamente scappare da Crotone, probabilmente a seguito di una rivolta contro di lui o il suo ordine, ma che preferì essere ucciso (si dice sgozzato) piuttosto che scappare attraverso un campo di fave. Storie simili riguardano anche diversi gruppi di discepoli che, in fuga dalla città, preferirono essere uccisi e torturati (come la discepola Millia, che si strappò la lingua a morsi pur di non confessare il perché di questo tabù) piuttosto che attraversare un campo di fave.
Insomma, la comunità Pitagorica aveva diverse regole piuttosto bizzarre riguardo all’alimentazione, ma le fave sono di gran lunga l’aspetto più interessante e importante. Non c’è un solo perché per spiegare questa particolare limitazione, anzi, ci sono delle spiegazioni piuttosto “sporche” da affrontare 😉
La prima teoria che venne fuori fu collegata, ovviamente, al favismo, una sorta di allergia nei confronti di questo alimento. Gerald Hart affermava che il favismo poteva essere una malattia piuttosto diffusa all’epoca, e che quindi il divieto di mangiare fave potesse essere una semplice precauzione. Il favismo può essere potenzialmente mortale, può provocare nell’immediato febbre e emorragie, mentre a lungo andare può portare a epatiti e ittero (un colore giallastro della pelle). Per quanto si sa, le fave erano un legume piuttosto comune nelle popolazioni dell’epoca, sopratutto nel mediterraneo, dove se ne faceva un largo uso. Spesso, chi è malato di favismo non può mangiare neanche fagioli e piselli.
Ma, personalmente, ritengo più verosimile la seconda teoria, proposta da Claude Lévi-Strauss. Questo studiò a lungo usi e costumi delle popolazioni classiche, e spiegò il tabù delle fave per via di una credenza, piuttosto comune e diffusa, che collegava le fave al mondo dei morti. La morte è un concetto molto considerato dai Pitagorici: questi, seguendo gli usi di moltissime popolazioni orientali, non dovevano entrare in contatto con la morte, quindi con cadaveri, specialmente umani. Anche dopo la sepoltura, non si poteva passare al di sopra di una tomba, perché al di sotto vi era un cadavere. Se ciò accadeva, ci si doveva purificare tramite diversi bagni rituali, in quanto la morte era un passaggio impuro, con il quale non si doveva interferire.
Apro una piccola parentesi. Ancora oggi, è largamente considerato sbagliato il passare sopra una tomba. Se si visita un cimitero con delle sepolture a terra, in molti cercano di non calpestare nessuna area di sepoltura. Oggi, lo si fa per portare rispetto al morto, e di certo non abbiamo più bisogno di una purificazione qualora dovesse capitarci di passarci sopra. Ma all’epoca non era così, e non lo è ancora oggi per diversi credi. Diversi rami dell’Ebraismo ultra-ortodosso considerano ancora impuro avere contatti con la morte (famosa la foto di quel fedele ricoperto da un telo di plastica su un volo di linea, perché doveva proteggersi in quanto il volo sarebbe passato su dei cimiteri), così come alcune credenze Musulmane e Induiste. Insomma, anche questo comportamento con antiche radici continua a vivere in noi.
Tutto qui? No. C’è un terzo aspetto, meno considerato e largamente scartato, che è quello che riguarda il mondo della sessualità. Porfirio scrisse un’importante testo a distanza relativamente breve dalla morte del filosofo, “Vita di Pitagora“, che si fornisce moltissime informazioni sulla sua storia, i suoi studi e la sua famiglia. Tra le altre cose, vi è anche una particolare spiegazione del perché le fave fossero proibite. Riporto integralmente:
Prescriveva di astenersi dalle fave non meno che da carne umana.
Si riferisce che egli vietasse questo cibo, perché quando turbatosi il primo principio e origine delle cose e molti elementi confusisi e uniti i loro germi e insieme imputriditi nella terra, a poco a poco le singole cose si divisero ed ebbero vita, insieme nascendo i viventi e spuntando i vegetali, allora dal medesimo imputridito germe sorsero gli uomini e fiorirono le fave.
E di questo recava prove appariscenti; poiché, diceva, se si mastica la fava e dopo averla trita coi denti si espone per poco tempo all’ardore dei raggi del sole e poi la si lascia e dopo breve intervallo di tempo si torna a vederla, si sentirà da essa odore di seme umano.
E se quando la fava in boccia fiorisce, si prende una particella del fiore giù nereggiante, e si pone in un vaso di argilla e, ben otturato con un coperchio, si seppellisce sottoterra e si custodisce così seppellito per novanta giorni, e se poi si disseppellisce e se ne leva la copertura, si troverà invece della fava esser comparsa o una testina di fanciullo o una natura di donna.
Insomma, il collegamento con quanto disse Claude Lévi-Strauss c’è, anzi, ci sono addirittura elementi in più. Le fave in questo caso non rappresentano il mondo dei morti, bensì lo stato non ancora compiuto dell’uomo. Fave e uomini sarebbero nati dallo stesso seme, e, a dimostrazione di ciò, si portava ad esempio la fava masticata e lasciata al sole. Non ho assolutamente idea di come sia potuta uscire fuori una cosa del genere (Chi ci ha pensato e provato per primo? Chi lo ha scoperto?), ma è sicuramente da qui che nascono tante altre piccole storie. Si disse anche che le fave erano proibite in quanto considerate il seme della terra, e che per questo non si doveva interferire con loro.
Per quanto riguarda invece l’ultimo passo, in questo caso si tratta anche di una strana credenza popolare, portata avanti per millenni. Non erano poche le leggende riguardanti la “creazione” di piccoli esseri partendo da un vaso, a volte pieno di terra o sterco, che andava poi sotterrato o custodito (quasi sempre per 90 giorni) in determinate condizioni. Le storie riguardo questi strani processi continuarono fino alla fine XVI secolo, trovando terreno fertile tra alchimisti e appassionati dell’occulto. Ma, ovviamente, parliamo di una cosa impossibile. Tuttavia, anche da qui si generò un’altra leggenda, che ci dice di come per i Pitagorici i fiori della pianta delle fave ricordassero incredibilmente la “natura di donna”. Una vagina. E, per il forte senso di pudore, questi dovevano starvi alla larga. E, per concludere, ancora oggi più di qualcuno si riferisce alla vagina chiamandola proprio fava.
Questo dicono gli scritti sopravvissuti fino ad oggi. Anche in questo caso, l’attendibilità e dubbia. Ma è interessante pensare a come ragionassero nell’antichità, e sopratutto a come arrivassero a determinate conclusioni. L’avversione alle fave fu appresa da Pitagora in un suo viaggio, e per questo rappresenta un collegamento importantissimo per sapere qualcosa in più non solo sulla nostra terra, ma anche sulle popolazioni dell’epoca. Una testimonianza rimasta di interesse, probabilmente proprio per la sua bizzarria.
Detto questo: le fave sono buonissime. Crude e cotte, intere o a purè, le verdi e anche le rosse. Perché farne a meno, se le si può mangiare? 😎
Una risposta a “Pitagora e le Fave”
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[…] Pitagora pare fosse particolarmente avverso al legume, e sul perché esistono moltissime teorie, alcune decisamente bizzarre. Tuttavia, in alcune zone d’Italia si continua a consumare un dolcetto noto come fava dei […]
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