Quanti sciampalé abbiamo fatto, in vita nostra? Pfff, non si contano… Alcuni ce li ricordiamo bene (benissimo), altri sono caduti nel dimenticatoio. Giornate di sole, di compagnia, di pioggia, svogliate, di manifestazioni.. e chi più ne ha più ne metta.
Sciampalé è una parola simpatica. Si usa solo nel Crotonese, e, nell’uso comune, vuol dire “non andare a scuola“, l’equivalente del più conosciuto “marinare” o “fare sega“. Viene anche usato, più genericamente, per indicare il non andare in un posto o il non fare una cosa. Non vuoi andare a scuola? Sciampalé. Non vuoi andare a lavoro? Sciampalé. Non vuoi fare una commissione? Sciampalé. E così via.
Mi sono sempre chiesto da dove derivasse questa parola. Nonostante tante ricerche, ad oggi non posso dire di essere sicuro al 100% della sua origine. Tuttavia, una mezza pista c’é.
In Calabria abbiamo un melting pot di lingue non indifferente. Influenze di lingue arcaiche e autoctone, greche, latine, arabe, spagnole, francesi, per poi passare alle influenze dialettali dell’Italiano. Insomma, ricercare l’origine di una parola non è sempre facile come potrebbe sembrare, e “sciampalé” é un esempio perfetto: potrebbe derivare da una buona parte di esse.
Potrebbe trattarsi di una storpiatura, ossia di una parola derivata da un errato ascolto o una errata trascrizione di uno o più termini. Nel parlare comune, spesso succede che un termine venga storpiato, sopratutto quando questo appartiene ad altre lingue. Un esempio casareccio ci viene offerto dal termine cota, usato ancora oggi in molti paesi per indicare la propria terra o il campo da coltivare. Il termine cota è una storpiatura della parola quota, indicato appunto per la divisione delle terre agricole.
Da cota a quota la strada è grossomodo poca. Ma cosa ha potuto generare una parola come sciampalé? Un termine indubbiamente più complesso e articolato. Le ipotesi sono tante, ma molto probabilmente, stiamo parlando, semplicemente, di un latinismo.
L’origine di sciampalé potrebbe essere il termine tardolatino sciampiàre, anche se a primo impatto potrebbe non sembrare. Sciampiàre, infatti, stava ad indicare un’allargamento, un’espansione, una dilatazione. Dai vari vocabolari consultati, online e cartacei, il termine si traduce con: aprire, stendere, allargare, dilatare, ampliare. Deriva a sua volta dal termine tardolatino sciàmpio, ossia ampio.
Il fatto che stiamo parlando di un vocabolo tardolatino, quindi volgare, è importantissimo. Perché oggi diciamo ampio, anziché sciàmpio? Perché diciamo ciao, anziché sciào? Perché in questo periodo storico avviene un’incredibile modifica fonetica e strutturale delle parole latine. In un certo senso, nascono i dialetti derivati dal latino, dato che ogni zona dell’oramai decaduto Impero Romano, non avendo più continue influenze, iniziò a sviluppare le proprie parlate (dette, per l’appunto, volgari).
Ma torniamo a noi. Nonostante il termine originariamente volesse intendere un allargamento, iniziò anche ad indicare una restrizione, una lontananza, o una mancanza. Nel Convivio, Dante scriveva:
… tra le altre ragioni addotte è quella che quanto le nostre operazioni si stendono tanto la maiestade imperiale ha giurisdizione, e fuori di quelli termini non si sciampia.
Cioè, ampia tanto quanto i suoi termini (o limiti), oltre i quali non può/deve andare. Cambia così il significato originale del termine, che viene dunque usato anche per l’esatto opposto di ciò che voleva intendere: non solo ampio, ma anche stretto; non solo pieno, ma anche vuoto.
Nel centro Italia, termini come sciàmpato e sciàmpare si usa(va)no come equivalenti di scampato e scampare (anche se nella parlata comune indicano l’essersi fatti uno shampoo 😀 ). Un forte aiuto ci viene dal dialetto Abruzzese, dove sciàmpate vuol dire svuotato, e dove troviamo un vocabolo incredibilmente simile, sciàmpele, che vuol dire svuotalo. È chiarissimo il riferimento alla lingua Latina: se svuoti il magazzino, avrai più spazio all’interno (in un certo senso, sarà più ampio). Ma nella parlata comune, il termine rimane a significare non tanto l’ottenere spazio, ma l’atto di svuotare.
Ora, non saprei proprio dire come, ma questo modo di intendere ha prevalso. Pensate allo stesso sciampalé: non indica tanto una scuola vuota, bensì il non esserci andato (quindi, in un certo senso, di averla svuotata). Il come sia passato da sciampiàre a sciampalé, poi, è un’altro “mistero”, anche se le due parole sono “foneticamente simili”, ed è possibile che il termine abbia seguito un percorso tipo sciàmpiare – sciàmpare – sciàmpale. La diversità di pronuncia poi ha fatto il resto.
A questo punto, qualcuno può chiedersi perché deve derivare proprio da sciàmpiare e non direttamente da scampàre, che come termine è simile sotto entrambi gli aspetti (pronuncia e significato). A tal proposito, c’è da dire che scampare è una parola “più nordica”, sebbene nasca sempre dal Latino. Deriverebbe dal Francese Escampér, che a sua volta ha influenzato le lingue delle regioni vicine (in Spagnolo/Portoghese è Escampàr, in Inglese è To Scàmp). Inoltre, la radice iniziale di sciampalé, ossia sci (che in Latino era ex), è caratteristica del periodo tardolatino. Nel dialetto Calabrese abbiamo molte parole che sono rimaste quasi invariate nella pronuncia, così come sciampalé, ma anche sciàlati o sciamparàtu, entrambe di origine tardolatina. Principalmente per questo motivo, penso che scampare non sia un candidato valido, sebbene sia decisamente simile.
Sempre dal Francese arriva una fantasiosa somiglianza: champ allé. In un frase completa, potrebbe essere: “Le champ est allè“, e significare letteralmente un campo perso, andato, libero, vuoto. Magari, l’espressione veniva usata dai comandanti di vari eserciti e battaglioni per indicare l’esito di una battaglia, o dai soldati di vedetta per comunicare ciò che vedevano. È plausibile che questa frase sia stata pronunciata in terra Calabra, durante l’occupazione Francese. Inoltre, champ allé e sciampalé si pronunciano in modo estremamente simile. Può essere che la popolazione ha sentito talmente tante volte questa frase, da averla assimilata e collegata proprio al lasciare un terreno libero? Anche in questo caso, nonostante la somiglianza, penso che si tratti più di una coincidenza, come nel caso di scampàre. Sicuramente, la lingua Francese ci ha lasciato un’eredità di parole e di pronunce non indifferente (si pensi a ndùja, che non solo è di origine Francese ma si pronuncia anche alla Francese). È dunque possibile che la pronuncia di sciampalé (con l’accento finale) sia stata influenzata proprio dalle pronunce Francesi, anche se non ho nulla di concreto per poterlo pensare.
C’è poi un’ultima, oscura, parola, sciàmpala. È presente in un libro del 1865, “Chiose anonime alla prima cantica della Divina Commedia di un contemporaneo“, edito da un certo Francesco Selmi (non so se è il chimico). Dico oscura perché il passo del libro non lascia molto spazio alle interpretazioni:
Per questo dritto pie si significa la madre Ecclesia, la quale con ciò sia cosa che fosse terra, cioè piccola e depressa, e dice ch’ella è cotta, cioè dotata e sciampala, però che fue dotata e magnificata per Costantino ìmperadore.
Cosa può voler dire essere dotati di sciàmpala? Sembra essere usata in senso negativo (piccola, depressa e cotta, quasi a intendere che non ne può più), ed essere sempre collegata al concetto pieno/vuoto. Ma è troppo poco per avanzare ipotesi.
Infine, è da menzionare un simpatico collegamento nord-sud: sciàmpa, nei dialetti del nord, era un modo di dire ladro, abbastanza usato sopratutto nel nord-est. In Campania, il termine sciàmpagna indicava gli amici del ladro. Il collegamento è interessante, proprio perché, collegandoci a quanto detto sopra, un ladro in genere ruba, e magari svuota un’intero appartamento. Insomma, il significato del termine è chiaramente delineato, dalla sua radice alle sue pronunce moderne.
Volessi tirare una somma, direi che sciampalé deriva certamente dal latino sciàmpiare, e che è un modo per dire svuotare e/o lasciar vuoto. Il significato del termine (e delle sue derivazioni) è grossomodo lo stesso, in diverse regioni d’Italia. Con l’unica differenza che, nel Crotonese, si usa principalmente per indicare il non andare a scuola.
Il bello di tutto ciò è che, a differenza di altri termini di uso comune, sciampalé è stato sempre usato senza avere un’idea di come fosse nato. Mia Nonna ha sempre usato il termine spiegandolo come un’esultanza, un verso di felicità per il non dover andare in collegio, e così la maggior parte delle persone a cui ho chiesto. Questo vuol dire che stiamo parlando di una parola utilizzata quotidianamente ma senza sapere assolutamente nulla del suo passato. Usata solo perchè se ne ha una remota memoria (al pari di termini autoctoni come avùzu). Non ho trovato un riferimento al termine neppure nel completissimo “Nella lingua … la storia“, volume importantissimo per chiunque voglia sapere da dove derivano una buona parte dei propri termini dialettali. E, da qui, è nata la voglia di indagare.
Un’ultima (lo giuro) curiosità: sciampalé e sciòpero, che sono quasi sinonimi, hanno la radice in comune. Come detto sopra, la radice sci in latino era ex, e con l’avvento del volgare, la pronuncia di ex venne definitvamente sostituita con sci. Sciòpero in Latino era exoperàri, ed indicava gli operai che stavano volontariamente fuori dai posti di lavoro (lasciandoli vuoti). Exoperàri, che potremmo leggere “ecsoperàri“, in volgare divenne scioperàri, coloro che scioperano. Poi, scioperàre e sciòpero vennero praticamente naturali.
A questo punto, sperando di aver fatto cosa gradita, il mio consiglio è: facìtiv ‘nù bèllu sciampalé, che arriva la bella stagione! Dalla scuola, dal lavoro, dalla vita di tutti i giorni. Che ogni tanto, c’è bisogno di svuotarsi anche la testa 😉
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