Inizia il periodo di festa, e chissà quanti bei dolci si apprestano a comparire sulle nostre tavole. Sùsumelle, crùstoli, tardìddi, tòrroni, senza contare la frutta secca! Un vero paradiso per i golosi come il sottoscritto, con buona pace del medico e dell’LDL 😛
È sopratutto in questo periodo, escludendo feste e ricorrenze, che si sente pronunciare una parola strana: ciciumbò. Una parola sempre più rara, che nel corso del tempo ha visto variare sensibilmente il suo significato. Oggi infatti, quando la nonna ti dice “ammuccàt sù ciciumbò” si riferisce quasi sempre ad un cibo dolce, spesso non più grande di un boccone, generalmente associato ai bignè (alle paste) ed ai dolci dei giorni di festa. Non va confuso con il termine candroglia, che indica un alimento gustoso ma non buono per la salute.
In passato non era così. Il ciciumbò era una pietanza povera, composta da pochi alimenti, spesso una minestra o una miscela. Una vechia ricetta definisce gli ingredienti “tipici” di un ciciumbò con acqua, olio, sale, uova e asparagi, mentre una ricetta della presila parla (ancor più miseramente) di acqua, olio, sale e pane. Nel Marchesato invece la parola indicava genericamente le minestre, indipendentemente dagli ingredienti.
Ma da dove deriva questa parola? Straordinariamente, è un vocabolo greco-arcaico rimasto quasi invariato nella sua pronuncia, che nei secoli scorsi assomigliava a “cicimmò“. Dal greco il vocabolo si sarebbe tradotto con “miscuglio”, ma rimase principalmente la sua pronuncia. Stando ad una ricetta greca, questa pietanza era generalmente composta da farina, cacio, vino e miele. Per l’appunto, un bel miscuglio di ingredienti, e che forse non aveva un sapore poi così cattivo.
Purtroppo il vocabolo assunse una veste negativa, diventando emblema della miseria e della povertà della regione e di tanti suoi piccoli centri. Tuttavia, vi è un ciciumbò molto famoso nella nostra tradizione, piatto rituale che in genere si preparava il 13 Dicembre, il giorno di Santa Lucia (anche se in altri paesi si prediligeva San Nicola), ossia la cùccia (conosciuta in alcuni centri come pùrvia), una minestra di grano bollito nel vino cotto. Forse è questa l’origine dell’associazione del termine ad un qualcosa di “dolce”.
Questo è un’altro, ennesimo termine che ci ricorda l’incredibile vastità della nostra lingua, del nostro dialetto. Nello specifico, parliamo di un termine utilizzato da almeno 2500 anni a questa parte, e che rispecchia (in parte) le tradizioni culinarie popolari dell’antichità classica. Semplicemente incredibile.
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