Ogni commento sul primo maggio è passato in secondo piano rispetto a quanto sta accadendo oltre oceano, negli Stati Uniti. Questa mattina infatti ci siamo svegliati con le immagini delle forze armate che hanno fatto irruzione nelle università per sgomberare i presidi a sostegno della Palestina con la solita scusa che viene ripetuta dal 2001.

È evidente che in tutta Europa ed in buona parte dell’occidente ci sia una forte attenzione al conflitto, e che le piazze siano quasi sempre a sostegno della Palestina. I giovani americani riprendono la loro storica tradizione della manifestazione del dissenso nelle università, come già avvenuto durante la guerra del Vietnam. Ed oggi come allora, vengono manganellati e sgomberati. In quegli anni non si parlava di “black block” e di “anarchici” ma di “sovversivi” e “comunisti”. La sostanza non cambia.

Al netto della presenza di facinorosi e “teste calde”, è comunque innegabile che in tutto il paese ci sia una profonda mobilitazione a sostegno dei palestinesi. Una mobilitazione che non tiene conto della religione, nè della discendenza, ma solo dell’evidente genocidio compiuto da Israele. Tentare di negarlo è inutile. Possono provarci i media main-stream, ma anche loro hanno sempre più difficoltà a gestire la posizione dello stato ebraico.

Nelle prossime settimane la corte dell’Aja si pronuncerà sul mandato di arresto internazionale, che accomuna i leader di Hamas e quelli del governo israeliano. Ed a quel punto il danno sarà evidente a tutti, anche a chi sta continuando a difendere l’indifendibile. Perché Israele è indifendibile, le parole di Netanyahu sono indifendibili, e tutto ciò non può essere fatto passare per antisemitismo. Criticare un capo di governo che dice di voler invadere “ad ogni costo” è più che legittimo.

Eppure oggi si rischia una bella manganellata se si va in piazza a manifestare, o una querela, una denuncia. Sostenere apertamente la Palestina ed i palestinesi è visto con sospetto. Ed è forse proprio questa quella forma di subdolo razzismo che dovremmo combattere. Quella che ci fa vedere il carnefice come “uno di noi”, mentre le vittime sono sempre “gli altri”, quelli “diversi”, e che, in fondo in fondo, “se lo meritano” pure.

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