In questi giorni sto incontrando spesso un vecchio amico, di quelli che ti ci perdi per anni e poi, quando ti ritrovi, è come se non ti ci vedi solo da qualche giorno. Se non ci si vedeva era tutta colpa dei nostri lavori, dei nostri orari strani, degli impegni. Ora ci becchiamo entrambi a portare il cane sul lungomare, quasi ogni mattina.
Il motivo è semplice: anche lui ha lasciato il lavoro. Un bel lavoro, nella GDO, lo stesso che avevo anche io seppure in una catena diversa. Ma i motivi sono sempre quelli: tante ore di lavoro (troppe, sempre sulle spalle dei soliti), colleghi assunti “per forza” e che non fanno nulla, sottodimensionamento, straordinari continui. Circostanze che di fatto ti fanno fare il manager ma con uno stipendio da addetto vendite part-time.
E quindi non ne vale la pena, mi dice. Evidenza che condivido e che pochi mesi fa mi aveva portato a fare la stessa scelta, perché un conto è lavorare “sotto padrone” (come si usa dire per i dipendenti), ed un conto è lavorare sotto padrone e con il culo a ponte ad ogni richiesta. Non è giusto.
Se lo racconto, è perché in questi mesi ho incontrato nuovamente diversi amici e conoscenti che, dopo esperienze qua e la, alla fine son tornati. Se il lavoro nella GDO era sempre qui a Crotone, un’altro ragazzo aveva lasciato il posto come commesso in un negozio di abbigliamento per una chiamata in una scuola nei pressi di Milano. Il richiamo del bidello, per intenderci.
Alla fine, sebbene il contratto-covid non fosse ancora concluso, me lo ritrovo qui in città. Lavora la sera come cameriere in una pizzeria. Una bella sorpresa, visto che sicuramente anche le condizioni contrattuali (e la tipologia di lavoro) rispetto al commesso sono differenti. E poi, lasci la strada della scuola per un lavoro così?
Le sue motivazioni sono un po’ differenti. Partono dallo stipendio “basso” non per la cifra ma per la città, dove è potuto rimanere finché era in casa di alcuni parenti. Trovare un affitto decente, poi, pare sia stato impossibile. Circostanza “condita” dal brutto ambiente di lavoro che mi ha descritto. Cosa che già mi disse, anni addietro, un altro amico che aveva trovato lavoro in una scuola a Parma, mollato dopo qualche tempo.
Ambiente di lavoro, quello nel pubblico, spesso ambito, ma non sempre gradito o tollerato. Me ne ha parlato anche un’altro ragazzo, che vincitore di concorso pubblico era partito con la famiglia per fare il suo mese di prova, tutto contento. Ma è durata solo un mese: alla proposta di accettare il contratto ha rifiutato. Non per lo stipendio, non per i costi di affitto o della vita, ma per l’ambiente di lavoro.
Mentre ascolto, penso che siamo una generazione strana. Da una parte siamo alla ricerca di una sicurezza lavorativa, di un salario, di un qualcosa con cui campare. Al contempo, però, non siamo disposti a piegarci a nulla. Perché ogni sottomissione, ogni compromesso che magari in passato sarebbe stato considerato necessario per ottenere il posto, oggi è visto come uno scazzo, una cosa non necessaria.
Sono lontani i tempi in cui si faceva (davvero) di tutto per portare qualche solo a casa. Oggi si preferisce rimanere “poveri e pazzi”, come si suol dire, con l’idea di preservare una sorta di integrità. Non so se sia vero o meno, ma in fondo è un pensiero che condivido. E penso a quanto tutto ciò appaia come strano agli occhi di chi ci guarda.
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