Rinunciare ad un’aiuola, ad un pezzo di terra, ad un fazzoletto di verde, mi viene difficile. È sbagliato umanizzare fino a tal punto la natura, ma credo sia ancora più sbagliato cedere al sogno effimero del cemento: perché un giardino senza verde non è un giardino, ma solo un recinto.
Qualche anno fa decisi di trasformare una piccola aiuola di terra nel mio giardino in area a verde. Prima ci mettevo qualche pianta a dimora. Mio nonno ci faceva verdure e peperoncini. Io avevo già ridotto la mia area coltivabile ad una sola parte del giardino, lasciando il passo a bulbi, piante grasse e due alberi.
Due ficus, per la precisione: il primo, di 3 anni d’età, regalatomi da una fioraia che lo aveva ricevuto per l’inaugurazione, e cercava di metterlo a dimora per dargli il giusto spazio; il secondo, di 22 anni, portato da casa dopo una vita in vaso sul balcone. Un solo anno è bastato per farli crescere e ridargli vita.
Vita che però adesso gli toglierò, cedendo non solo alle lamentele del vicinato (perché gli alberi “fanno foglie” e dunque “sporcano“) ma anche interne, che spingono ad avere un giardino più sfruttabile e con meno cose da fare per tenerlo pulito.
Notate come le cose si intreccino: la natura viene percepita come sporca, mentre una gettata di cemento è facile da pulire con una semplice lavata.
Guardo ‘ste quattro piante in giardino e mi sento una merda. Arrivo io dopo anni e le condanno a morte, per recuperare pochi metri quadri di suolo calpestabile. È sbagliato. Ma tant’è.
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