Questa mattina, appena terminato il turno di lavoro, mi sono recato in fretta e furia a Catanzaro per un appuntamento. Appuntamento dagli orari tassativi – entro le 11:00 – al quale ho cercato di arrivare con un minimo di anticipo e senza correre troppo.
Partito alle 9:10, nonostante il traffico sono arrivato alle 10:20. Il tempo di trovare parcheggio (che in pieno centro non è facile) e pagare il biglietto guardo l’orario e si erano fatte le 10:28. Ottimo. Alle 10:30 ero già dove dovevo essere.
Entro, mi accomodo, due chiacchiere ed un rapido controllo di tutti i documenti portati con me. Sembra tutto ok. E poi, la doccia fredda: “Va bene, ritornì mercoledì prossimo“. Inutile ogni rimostranza. Alle 10:37 ero già sulla porta, pronto a tornarmene a casa.
Questo è solo l’ultimo episodio di una lunga lista che mi è capitato personalmente, sempre a Catanzaro, sia presso strutture pubbliche che private. Ed è una cosa che mi fa imbestialire: perché si da per scontato che qualcuno possa tranquillamente tornare un’altra volta, come se abitasse nelle vicinanze.
Al diavolo ogni campanilismo: un’ora di macchina non è niente. Il problema è il dover chiedere permessi al lavoro, dover organizzare le giornate in modo da far combaciare questi spostamenti, ed ora come ora anche il consumo di benzina. Circostanze che potrebbero essere evitate, ma delle quali non ci si preoccupa, evidentemente.
Dall’inizio dell’anno sono già stato a Catanzaro due volte. Dovrò tornarci almeno altre due volte, forse anche tre, prima dell’estate. Poi il rinnovo del piano terapeutico – da fare esclusivamente all’ospedale del capoluogo – e tutte le visite necessarie. Un continuo avanti e indietro, che non tiene conto della possibilità di chiamare, mandare email, messaggi o altro. Tutto in presenza. Tutto a Catanzaro.
L’ho detto in altre occasioni, e lo ripeto. Moriremo catanzaresi. E forse saremo anche sepolti lì, a meno che non ci chiedano di tornare in un secondo momento.
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