Tra le tante novità di quest’anno, non ricordo di aver già menzionato un piccolo regalo che mi sono fatto: uno smartwatch, che poi in realtà è più una fitband. L’ho acquistato proprio con l’intento di motivarmi un po’ in più, tenendo traccia visibile degli allenamenti che oramai tengo con una certa regolarità. Inizialmente ero scettico, ma anche in questo caso devo ammettere che vedere nero su bianco le proprie statistiche aiuta a non cullarsi troppo.

Sti aggeggi sono un po’ diabolici, perché monitorano quei parametri che poi sono i più chiacchierati e cercati. I passi, le calorie, i chilometri, ma anche le ore di sonno o il battito cardiaco. Numeri e dati che magari presi così singolarmente non hanno alcun significato, ma messi nel quadrante di un orologio in plastica assumono un senso tutto loro. Una concezione di benessere, un’aurea salutare (o salutista).

E insomma, sono seduto a lavorare e l’orologio mi ricorda di alzarmi per fare due passi. Di idratarmi. Di sgranchirmi gli occhi, il collo, le caviglie, i polsi. Mi notifica gli orari dell’allenamento (che io ho impostato) e se non posso farlo non me lo fa cancellare: posso solo posticiparlo, rimandarlo per un po’. Tutte cose che effettivamente possono portare una sorta di motivazione, che spinge anche i più pigri a muoversi di più.

Quel che mi chiedo, però, e se tutto questo in fondo serva. L’allenamento così diventa un mero impegno per raggiungere un’obiettivo fissato da un chip che portiamo al polso, spesso sottostimato proprio per essere alla portata di tutti. Mi spiego: il mio orologio dice che basta fare 6 mila passi al giorno, e questo parametro non si può modificare. Bastano davvero? Sono davvero sufficienti 400 calorie da smaltire in 24 ore? Serve sul serio alzarsi 12 volte dalla sedia?

Insomma, numeri. Numeri che poi cerchiamo di raggiungere quasi automaticamente, senza un vero perchè. Certo, è sempre meglio di niente. Sempre meglio di stare seduti tutto il giorno o rimanere sempre chiusi in casa.

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