Le storie dei briganti, quasi esclusivamente confinate ai fitti boschi della Sila, alle sconfinate valli del Pollino o alle pendici dell’Aspromonte, spesso si sono incrociate, per qualche motivo, con la storia della città di Crotone. Episodi sporadici e fugaci, avvenuti in periodi diversi della storia indipendentemente dai fatti riguardanti la tanto discussa Unità d’Italia.
Gli episodi più recenti riguardanti il brigantaggio in città risalgono ai primi del ‘900, mentre nel Marchesato si continuerà a parlare di bande armate di briganti fino ai tardi anni ’20. Storie spesso limitate a sequestri, omicidi ed assalti armati, volti ad ottenere – almeno in teoria – ingenti riscatti. Esistevano bande più o meno grandi in ogni paese della Calabria, e la loro attività è attestata almeno dal ‘500, anche nel crotonese (si pensi al famosissimo Re Marcone).
Per quanto temuti, non era infrequente che alcuni briganti finissero imprigionati. L’atteggiamento della legge nei loro confronti cambiò più volte, e se nel corso del Vicereame Spagnolo si susseguirono gli indulti che annullavano le condanne a morte in cambio dell’arruolamento, già nel Vicereame Austriaco iniziarono i tentativi di repressione con processi sommari, ad modum belli. Era usanza infatti non solo uccidere pubblicamente i briganti, ma anche portare i loro resti in giro per le vie della città, per mostrare a tutti la morte del temuto nemico.
Ma le carceri non sempre erano organizzate per gestire la prigionia di uomini che potevano contare su dei veri e propri eserciti in miniatura. Per evitare scontri armati, dove i gruppi di briganti avrebbero di certo avuto la meglio, le guardie offrivano spontaneamente di liberare i prigionieri “notoriamente pericolosi”, spesso dietro il pagamento di una somma di denaro o scambiandoli con altri beni. Una forma di corruzione a tutela della proria incolumità.
A Cotrone esistevano ben due carceri: quelle situate all’interno del Castello, conosciute dai più, e quelle situate tra il quartiere Acquabona e Sant’Antonio (qui), oggi dimenticate ed abbandonate. Si trattava di carceri misere e fatiscenti, così descritte in un racconto dell’epoca da parte di Giuseppe Maria Galanti:
In Cotrone vi è la Bagliva posseduta in feudo da un particolare, la quale giudica solamente dè danni dati. La giustizia è male amministrata per difetto di costituzione generale nè governatori. Le carceri di Cotrone sono tanto pessime che il governatore è costretto mandare i carcerati in quelle del castello, mentre il castellano ha ordine di non poterli ricevere. Da che in Cotrone sono stati assegnati 4 fucilieri la popolazione vive più quieta.
Insomma, una situazione precaria, con pochi posti disponibili ed appena quattro (si, avete letto bene, quattro) fucilieri. Una difesa praticamente inesistente, di fronte alla possibile minaccia di decine e decine di uomini armati.
Purtroppo, non si è conservato alcuno storico dei prigionieri, e le uniche informazioni sulle carceri si limitano quasi esclusivamente a comunicazioni di servizio. Le storie, dunque, delle innumerevoli persone che vi hanno trascorso del tempo sono per lo più andate perdute. Ma tra le poche memorie che si conservano, troviamo quella che fù la beffa di un brigante temuto e pericoloso, che riuscì ad evadere dal carcere cittadino senza spargere una goccia di sangue.
È la storia di Lorenzo Benincasa, efferato brigante a capo della banda – composta da circa 3000 uomini – dei sambiàsini, rinomata in periodo francese per la sua efferatezza. Pluriomicida, uccise per la prima volta a dodici anni, quando sparò al volto sua sorella. Da lì fu un crescendo di violenza, che lo portò ad essere un temuto capopòpolo, fino all’adesione nell’esercito del Cardinale Ruffo nel 1799. Quell’anno, per la prima voltà, giunse nei pressi della città di Cotrone (che cercava di resistere alla restaurazione borbonica), non come assalitore ma come razziatore, addetto a saccheggiare i villaggi per poi dargli fuoco.
Nonostante l’adesione all’esercito del Ruffo, finiti i tumulti subì la stessa sorte che toccò ad innumerevoli briganti che credettero alle promesse di grazia, indulto ed amnistia: venne accusato e processato. Nel 1805 si presentò al Tribunale di Catanzaro, ed il “preside” Costantino de Filippis lo condannò a scontare la sua pena (della durata ignota) lontano dalle zone da lui “comandate”, spedendolo dritto nelle carceri di Cotrone.
Ma la sua fu una permanenza breve, dato che nel 1806 prese parte alla battaglia di Sant’Eufemia prima ed all’invasione di San Biagio dopo. Era infatti riuscito ad evadere quasi subito dopo la condanna, senza corrompere nessuno e sopratutto senza versare neppure una goccia di sangue. Come ci riuscì?
Le fonti parlano di una donna definita drùda, e dunque un’amante del Benincasa, che non solo si fece carico di mantenerlo fornendogli viveri e quant’altro, ma si impegnò personalmente per aiutarlo ad evadere. L’iverosimile nome di questa misteriosa donna sarebbe Masa, e mentre alcune fonti la dipingono come una sua “fedele seguace”, in altri testi viene descritta come una popolana del luogo invaghitasi del brigante.
Non lo sapremo mai per certo, così come non sapremo mai come avvenne realmente la sua fuga. Certo è che il temuto brigante affinò l’ingegno e l’astuzia, riuscendo a sfruttare a suo vantaggio quel legame amoroso. Una volta evaso però non risparmiò la sua donna, caduta anche lei vittima di quell’uomo che aveva aiutato a salvare.
È questa, ad oggi, l’unica storia di un’evasione dal carcere cittadino documentata e tramandata. Il Benincasa tornò alla sua solita vita, fatta di scorribande, omicidi e violenze, mentre il carcere di Cotrone continuò ad ospitare numerose persone. E chissà quante, nel corso degli anni, hanno tentato o sono riuscite a fuggire.
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