Sono anni difficili, quelli successivi alla seconda guerra mondiale. Gli strascichi del regime fascista, con tutti i problemi che produsse nonostante le grandi celebrazioni e la propaganda, erano sotto gli occhi di tutti. In pochi sanno, ad esempio, che il razionamento alimentare proseguì fino al 1949, raggiungendo quantità di cibo al limite della sopravvivenza.
Esisteva infatti un sistema di rifornimento alimentare, il SE.PR.AL., che si occupava di rifornire tutte le province italiane di viveri, da conservare in dei più o meno grandi magazzini detti ammassi o ammucchi. Nessuno era libero di comprare ciò che voleva: ogni giorno, con l’apposita tessera (detta carta annonaria), ci si recava al “magazzino del cibo” e si ritirava la propria quantità giornaliera di cibo.
Secondo le linee guida della stessa Sezione Provinciale Alimentazione, fortunatamente conservate, si aveva diritto (a testa, al giorno) a 300 grammi di pane o 39 grammi di pasta (quando disponibile). Si aveva inoltre diritto ad una candela al mese, e a 20 cl d’olio per un quadrimestre. Le quantità diminuirono drasticamente, e spesso i prodotti non erano disponibili. Si ricorreva così ad alternative (il burro piuttosto che l’olio, o il lardo), surrogati (l’orzo al posto del caffè) e trucchetti (come il vino allungato con acqua).
Allo stesso modo, chi possedeva grandi quantità di generi alimentari, o campi coltivati, animali da allevamento o scorte varie, era soggetto a requisizioni da parte degli ufficiali. Insomma, non solo era impossibile comprare ciò che si voleva, ma anche conservare lo stesso cibo che si produceva.
La situazione finì per generare due conseguenze: un mercato alimentare parallelo, con prezzi spesso più alti ma dove era possibile trovare di tutto, ed è un vero e proprio via vai di “agenti di commercio” che, senza farsi scoprire, trasportavano cibo da ogni parte d’Italia. C’era poi chi falsificava le carte alimentari, chi aumentava le richieste di cibo, chi si inventava patologie o figli a carico per avere razioni maggiori… e tanti altri escamotage.
Ma i paesi più piccoli e marginali rimasero quasi completamente esclusi da questo meccanismo. La rete del mercato nero nazionale non si addentrava nei piccoli centi, generalmente con poca popolazione per di più generalmente in stato di grave povertà, e si fermava ai grandi centri. Qualche intraprendente si avventurava anche nell’entroterra, ma i rischi erano molti, ed i più evitavano.
Nel Comune di Petilia Policastro il piccolo mercato nero era saltuario e gestito esclusivamente da gente del posto: accadeva che qualcuno risparmiasse dell’olio e decidesse di metterlo in vendita, o che un animale, macellato in fretta e furia nottetempo, fosse messo all’asta prima che gli ufficiali se ne accorgessero. Ma la popolazione locale finì per rimanere strettamente vincolata all’ammasso comunale, utilizzando la carta annonaria come principale fonte alimentare.
Le cose parvero andare discretamente bene, nonostante i malumori, fino al 1947. Nel corso dell’anno precedente l’amministrazione comunale nominò un nuovo responsabile per l’ammasso alimentare, di cui purtroppo non conosciamo il nome, che pare facesse delle palesi “preferenze” nella distribuzione del cibo. A qualcuno dava di più (molto di più), ad altri di meno, ad altri ancora proprio nulla. Finì così, dopo numerose segnalazioni ed avvertimenti, che la popolazione scese in piazza, armata.
Possiamo renderci conto, ad esempio, di alcuni prezzi esagerati dei generi alimentari: “Il vino annacquato a 110 lire al litro (anziché 75 lire); la pasta, acquistata con la tessera, a 34 lire piuttosto che a 26“. Il prezzo maggiorato rendeva impossibile l’acquisto, e l’amministrazione provò più volte a calmierare i prezzi, senza successo.
La popolazione dunque, che comprendeva sia l’abitato di Petilia che quello di Pagliarelle, scese in piazza armata di moschetti, rivoltelle, coltellacci e sassi. Assaltarono l’ammasso comunale, la caserma dei carabinieri e poi direttamente l’edificio del Comune. Infransero le finestre, tentarono di entrare per distruggere tutto, nel tentativo di dare fuoco all’edificio.
I pochi carabinieri resistettero come poterono, e chiamarono rinforzi. Arrivò una “compagnia di soldati in assetto da guerra”, che si mise a “sparare in aria”. Ma qualcuno in aria non sparò, tanto da colpire a morte due civili: Francesco Mascaro e Isabella Carvelli. Prima che la folla potesse reagire, la rivolta venne sedata e decine di persone furono tradotte in carcere a Catanzaro. Successivamente, per loro, vi fu un’amnistia generale.
La rivolta venne inquadrata sotto due aspetti. Il primo di natura strettamente alimentare: era insopportabile l’idea di vedere favoritismi nella distribuzione del cibo non solo tra i commercianti, ma anche tra i cittadini. Tutti avevano diritto ad eguali porzioni, ma evidentemente il principio decadde con il nuovo direttore dell’ammasso. Il secondo invece pare fosse di natura politica: ad assaltare il comune pare fu prevalentemente quella parte di popolazione apertamente ostile nei confronti del sindaco democristiano, Luigi Carvelli. Una “frangia rossa”.
A seguito della rivolta popolare, iniziarono diverse interrogazioni parlamentari sulla condizione meridionale. Il marchesato crotonese viveva in condizioni di grave miseria, e dopo la cessione delle più importanti attività lavorative come la So.Fo.Me, la popolazione era allo stremo e tirava a campare con poco o nulla. Ma le cose stentarono a cambiare, ed i moti popolari divennero sempre più frequenti.
I contadini occupavano le terre. Gli allevatori requisivano gli animali. I più poveri occupavano abitazioni. Tutti si organizzavano in grandi scioperi, che rischiavano di far andare a male tutto il sistema produttivo locale. Siamo agli inizi di quelli che poi ricorderemo come i fatti di Melissa, che concretamente avvennero un po’ ovunque, in tutto il crotonese. Inizialmente vennero repressi, ma alla fine la spuntarono.
Sarebbe opportuno, oggi come non mai, ricordare la storia di questi due “martiri” locali, morti mentre pretendevano una giusta quantità di cibo. Ed ancora più opportuno sarebbe includere i “fatti di Petilia” in quella grande, enorme lista di importanti rivolte popolari della storia locale. Un evento ingiustamente dimenticato dalla storia.
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