Dopo decenni passati a guardare con attenzione critica le problematiche dei cosiddeti Pigs, si fa fatica a credere che il “malato d’Europa” abbia preso residenza in Germania. È successo tutto troppo in fretta: nell’arco di un lustro anche la più solida economia europea ha iniziato a scricchiolare a suon di recessione, stagnazione, disoccupazione… termini che conosciamo fin troppo bene, un tempo riservati ai soli stati dell’Europa meridionale.
Se tutti gli occhi sono al momento puntati sulla Germania, però, un motivo c’è. E non è da cercare solo nel corporativismo mitteleruopeo (fatto di tanti “assi” tra i principali poli economici e commerciali), ma anche nella storia recente della stessa Germania, con le pesanti crisi economiche del vecchio secolo che anticiparono, prima ancora del nazismo e delle guerre, un forte vento revisionista.
Un vento che spira anche oggi su tutta l’alemagna, e che, al netto della narrazione interessata fatta dalla politica, si arricchisce di un nuovo elemento, taciuto ma evidentissimo. Ossia il tentativo di “smacchiarsi” dal passato, prendere distanze da ciò che fù senza però prendere posizione in merito. Un comportamento che potremmo definire italianissimo e del quale, evidentemente, abbiamo fatto scuola.
Su questo filone di pensiero c’è un evidente dibattito in corso, in Germania, che si concretizzerà – quanto meno politicamente – nel prossimo risultato elettorale, al quale si guarda con interesse tanto nel vecchio quanto nel nuovo mondo. Perchè ormai la nostra finestra di Overton si è allargata, e se negli Stati Uniti si può usare allegramente il termine “deportazione” in Germania forse appare ancora inopportuno, e ci si limita a “remigrazione”. Forzata, ovviamente.
In tutto ciò, è curioso (la storia lo è sempre) che appena un secolo fa, prima del catastrofico conflitto in cui ci impelagammo, fù proprio un filosofo tedesco ad avvertirci dei pericoli di questi venti ideologici e revisionisti. Venti che a suo dire mantenevano in vita una società “arida” sia intellettualmente che politicamente, e dunque fragile e destinata al collasso, se non fosse stata tenuta in vita grazie a continui cambi dei “modelli di riferimento”.
Perchè quello degli anni ‘20 del secolo scorso era un mondo già dominato dal denaro, che comprava tanto la retorica quanto il giornalismo, come amava sottolineare proprio Oswald Spengler, che ci lascia in eredità un volume attualissimo: quel Tramonto sull’Occidente che a suo dire era iniziato già nel secolo scorso, avviando una inevitabile “decadenza” di tutte quelle società che, anziché adeguarsi alla trasformazione, puntavano a guardare al passato, spesso in chiave ideologica e persino mitica, come purtroppo accade ancora oggi.
Certo, Spengler non è proprio un esempio positivo: come in molti tedeschi del tempo sostenne apertamente Hitler pur criticando il suo tono messianico, e simpatizzò per il nazismo salvo poi criticarne i tratti liberticidi, sopratutto in campo economico. Ma è proprio per questo che ci fornisce un perfetto esempio di “uomo del tempo”, che si adeguò, nonostante tutto, a ciò che stava accadendo.
Che è poi quello che sta accadendo ancora oggi.
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