In queste sere, a Sanremo, girano dei pagliacci. Sono i rapper, o per lo meno una parte di quei tizi che dall’undergound rappresentano oggi l’industria musicale che, come previsto, si è adeguata alla loro presenza. Evitiamo di citare il viturperato Fedez, assieme a tanti altri “minori” presenti in scena, come il “povero” Tony che si è risentito per la rimozione di una collana (chissà quanto avrà perso in sponsorizzazione, recuperata poi – sic! – con gli odierni articoli dei giornali).
Della loro presenza non ci si deve stupire, perchè non sono loro il problema. Sono le altre tre generazioni di rapper, che hanno infine sdoganato il genere anche sul palco dell’Ariston. Un bene? Un male? Non lo so. So solo che è un ulteriore passo all’impoverimento della scena, oramai ridotta al mercimonio e, di fatto, divenuta una scuderia da seguire ad Amici nel primo pomeriggio.
In altri termini, il rap così perde completamente il suo impegno sociale (che non è sempre politico) e diventa un genere come tanti altri. Non è più indicatore di nulla, non è portavoce di nulla, non è critico, non è ruvido, non ha spessore, ed ogni canzone si riduce a ritmi e rime accattivanti, da ballettare o ripetere per qualche settimana.
E menomale che il pubblico di Sanremo era composto da 1.500 stronzi.
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