Qualche settimana fa ho iniziato una serie di colloqui per cercare un nuovo impiego. Un lavoretto part-time, che non mi impedisse di continuare il mio attuale lavoro con il giornale – sostanzialmente il primo lavoro che mi piace – e di proseguire in questa professione. Una scelta un po’ obbligata viste le difficoltà economiche a fronte di tutti ‘sti aumenti, che probabilmente si incrementeranno ulteriormente vista la situazione tra Russia ed Ucraina.
In un primo momento, avendo avuto diversi riscontri positivi, mi ero illuso di essere ancora spendibile nel mondo del lavoro. Ho usato proprio questo termine: spendibile. Una parola brutta, che però definisce bene il rapporto lavorativo, che di fatto è una mercificazione. Senza entrare in una discussione più grande, mi limito a dire che mi ero sinceramente un po’ gasato per il fatto che, nonostante l’età, fossi stato preso in considerazione per diverse posizioni, e mi ritrovassi così a dover scegliere.
Bene: a distanza di un mese esatto quelle mie illusioni sono crollate. È venuto così fuori l’ostacolo principale, l’età, quei trent’anni che oramai sono visti con diffidenza e quasi in malo modo. Nonostante 12 anni di lavoro alle spalle ed una discreta preparazione (con tanto di esperienza diretta), alla fine mi sono visto scartare senza neppure troppe spiegazioni. Dopo diversi colloqui, videochiamate, strette di mano e questionari da compilare… arrivederci e grazie.
Forse è giusto così, ed in fondo è quello che preferisco nonostante le difficoltà a tirare avanti. Forse è giusto che alla mia età (!) mi faccia da parte e dia possibilità a chi ha dieci anni meno di me. È il loro turno di fare esperienze, di provare cosa vuol dire fare-di-tutto. Io, a trent’anni, non posso più permettermelo.
Differentemente da quanto avevo pensato, non sono spendibile. Al contrario: sono inspendibile. Sono un peso, uno di quelli che sa fare un po’ di tutto e che quindi è visto come il tipo che non sa fare niente di concreto, con le esperienze in più settori che anziché nobilitare portano note di demerito. Mi chiedo: ma chi mel’ha fatta fare, di lavorare?
Ho lavorato negli anni migliori della mia vita. Ho sacrificato uscite, compagnie, amici, ed anche fidanzate per quella responsabilità del lavoro che dovrebbe nobilitarmi, ma che in fondo mi svilisce. Mi chiedo semplicemente il perché l’abbia fatto. Forse a trent’anni sarei dovuto uscire dall’università, come hanno fatto tanti amici e conoscenti. Avrei girato di più l’Europa ed il mondo, avrei fatto l’Erasmus in Spagna… ma ho preferito lavorare. Per sentirmi dire che non l’attitudine giusta.
Alla fine della fiera, va bene così. Questo poteva essere un ulteriore bivio, che evidentemente non dovevo imboccare. Forse è un segno del destino, o divino, o chissà di cosa altro.
Come si sente in una recente canzone: “Meglio morì da soli che campà così, schiavi dal lunedì al venerdì“.
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