Il classico pregiudizio sul calabrese, e sul meridionale in generale, è quello sull’omertà. Della persona schiva, silenziosa, pronta a fare spallucce e a dire “nènti vìtti e nènti saccìu“. Esistono fior fior di canzoni sul tema, anche piuttosto orecchiabili. Ed in fondo, è un pregiudizio più che fondato: a livello popolare i temi si affrontano sempre con leggerezza, senza prendere posizioni nette, che è meglio non farsi nemico nessuno. È un “meccanismo feudale”, quello che ci fa sentire inferiori di fronte al potente, e, più in generale, sottomessi.
Lo scenario è noto ai più, e ieri ha generato un curioso editoriale di Bruno Palermo. La deduzione è però controversa: non ci sono più intellettuali, in Calabria? Quelli che ci sono, sono “liberi”? Perché non affrontano i temi politici? Perché nessuno “alza mai una voce per aiutare i calabresi a vederci meglio”? Sono belle domande, buttate però troppo a caso. A partire dal concetto di intellettuale: chi è, e chi non è, un’intellettuale? Non basta di certo la definizione accademica. Perché il mondo dell’editorialismo calabrese è più vivo che mai, e ci sono centinaia di blog regionali aggiornati quotidianamente dove ognuno contribuisce alla discussione.
Già, la discussione. Quella che sembra impossibile, in Calabria come in Italia, dove basta una campagna elettorale per mettere cane contro cane. I temi della politica sono deteriorati da tempo: se il caro vecchio PCI ci ha insegnato una cosa, è che i programmi elettorali non servono. Le persone non li leggono. Se ne fregano. Non c’è interesse nel sapere ciò che la politica fa – o vuol fare – per te, ci si interessa solo di ciò che la politica non fa. Ed il mantra moderno, infatti, è incentrato sulle colpe, sulle recriminazioni. Su chi-non-ha-fatto-cosa. Un gioco immaturo, che pretende di addossare tutto ad un capro espiatorio che, pur con le sue colpe, rispecchia la società in cui vive. Una società distratta, che di certo non si può accusare di essere “muta”, dato l’enorme eco polemico su ogni cosa.
Ognuno dice la sua, sulla politica. Ed in questi giorni iniziano a fiorire nutriti post da tutta la regione. Basta cercarli. Basta volerli leggere. Ma il punto è che non sempre se ne ha voglia, ed in certi casi una sentita antipatia personale ci porta a scartare a priori tizio, caio o sempronio. Già non siamo portati a dar credito a posizioni diverse dalle nostre, figurarsi se poi ad affermarle è uno che ci sta sui cosiddetti.
Ma non ci sono solo commenti banali e scontati, in rete come dal vivo. E non tutti i cervelli sono andati via. C’è del buono, in Calabria, che non è coltivato a dovere: come una pianta selvatica, cresce in altezza fino a spicàre. Gli “intellettuali” sono più simili ad un arcipelago che ad un esercito, e più che fornire il pane quotidiano producono del cibo che nessuno vuole mangiare. Non perché non sia buono, non perché non sia saporito: semplicemente, perché non piace. Non interessa. È questo il primo commento che si ottiene quando si parla con qualcuno in un qualsiasi bar, a triste riconferma di ciò che spiegava Gramsci. Non c’è bisogno di sentire che hai da dire, ognuno ha la sua soluzione magica, ed il fesso sei tu a non capirlo.
Non importa quanto sei noto e rispettato nel tuo ambiente. Non importa chi sei o cosa fai. Semplicemente, non si perde più tempo a conoscere gli altri. Non si “perde” più tempo a capire gli altri, perché non si da più corda a nessuno. A prescindere, i giornalisti sono dei “venduti di parte”, i blogger sono “dei rompicoglioni perditempo”, gli editorialisti sono “dei miseri prezzolati”, mentre quelli che fanno dati e statistiche sono “bugiardi seriali”, ed i politici… che ve lo dico a fare. Negli anni ’90 si perse il concetto di autorità, negli anni ’00 si è perso il concetto di autorevolezza: ti etichetto per quel che dici di essere, non per quello che fai o per quello che scrivi. Non esistono più “spessori personali” rilevanti, perché il tutto si è appiattito sul mestiere.
Come nel film Essi Vivono, non si vuole “vedere meglio”. La narrazione emotiva ha vinto, e invece di affrontare la realtà in modo analitico si preferiscono i complotti e gli intrighi di corte. Anche questa è omertà. Ed è meglio per tutti, in fondo: perché recriminarsi le colpe dei mille fallimenti della provincia più povera d’Italia? Perché parlar male di una terra già messa male? Troviamo una scusa generica, che aggradi tutti, ed avalliamola fino allo sfinimento. Finché non diventerà un concetto trito e ritrito, finché non ci crederemo un po’ tutti. Perché una bugia, se la ripeti per dieci, cento, mille volte, diventa verità.
Ma di persone che parlano, libere o meno, c’è ne sono. E sono anche tante. Neanche a farlo apposta, Crotone è la città calabrese con più testate giornalistiche: quasi tutte le redazioni hanno un editorialista (che nella maggior parte casi corrisponde al direttore), mentre alcune danno spazio a vecchi pubblicisti e scrittori, nonché ad abitué dei comunicati stampa. Le cose da dire sono quelle. Ed al di fuori del triste circolo “dei giornalisti”, o “degli intellettuali”, nessuno guarda mai. È l’eterno divario tra mainstreem ed underground.
Non bisogna ambire ad un Pasolini. Non bisogna ambire alla presunta superiorità intellettuale, e ghettizzarsi in ristretti circoli dove autoeleggersi come custodi di verità assolute. Bisogna scendere un gradino e guardarsi intorno. Bisogna prendere il meglio di un posto e coltivarlo a dovere. Bisogna creare discussione, quando si va al bar, non ascoltare passivamente. Bisogna rispondere a chi alza voce, perché non è l’urlo che corregge una cazzata. Bisogna affamare le menti di sapere, e prima ancora di quel briciolo di onestà intellettuale necessaria ad affrontare un qualunque argomento.
Solo allora si avrà la vana illusione di aver “influenzato” il dibattito pubblico. Di essere stato preso sul serio. Ma è una mera vanagloria: il giorno dopo, ognuno tornerà ad ignorarsi reciprocamente, ed a sostenere le proprie convinzioni senza se e senza ma. Tutto torna come prima, come consuetudine, come d’abitudine.
Gli intellettuali ci sono. Parlano. Discutono. Vengono derisi e ignorati. Vengono presi sul serio. Vengono invitati a trasmissioni, ad eventi, ad un tavolo con del vino. Si godono la chiacchierata. Perché sanno bene che, finito quell’attimo di interesse, vero o falso che sia, ognuno tornerà nella sua caverna a giocare con le ombre.
Non deve disperare, Bruno, perché i suoi appelli li leggiamo tutti. E non siamo in pochi a condividere le sue perplessità. Ma non si può non constatare che il dibattito che Bruno non vede c’è eccome. Semplicemente, a Bruno, per un motivo o per un altro, non sembra.
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