Negli ultimi mesi la discussione sugli hotspot per migranti è tornata alla ribalta. Si tratta di un discorso un po’ datato, ma sapete com’è: le poche novità ed il caldo giocano brutti scherzi, e finiscono per farti annoiare alla lunga. Succede così che l’estate crotonese si è “colorata” dei soliti striscioni di quei poveri forzanovisti che sentono la necessità di starnazzare per ogni cosa. Questa volta, tutti in coro contro l’hotspot, sui muri della città tanto quanto sui vari profili facebook.
Si tratta di un cortocircuito tipico, per le persone come loro: chiedono più controlli sull’immigrazione, ma allo stesso tempo sono contro l’immigrazione. Succede così il caso hotspot in salsa crotonese, dove in generale tutto il centrodestra si lamenta di un servizio (non ancora attivo) che ha sempre richiesto a gran voce. Perché sapete, dobbiamo difenderci “dall’invasione”…
La verità, molto più semplicemente, è che non c’hanno capito niente, e chissà che idea hanno di hotspot. A dimostrazione di ciò c’è un vecchio post scritto dal “movimento” Io ho un sogno per Crotone, un accozzaglia di fesserie complottare che vanno tanto di moda al giorno d’oggi, e che non fanno di certo onore a chi le scrive.
Visto che Crotone è designata tra le città che dovranno ospitare in futuro un hotspot per migranti, anzichè dare retta a questi quattro sciacqualattughe fermiamoci un attimo e chiediamoci: Che cos’è un hotspot? Come funziona? Quanti ce ne sono in Italia? E perché uno proprio a Crotone?
Partiamo dalla base. I cosidetti hotspot sono delle strutture adibite all’identificazione ed alla schedatura dei migranti in arrivo sulle coste italiane. Potremmo chiamarli “centri per l’identificazione”. All’interno vi lavorerà la Polizia italiana assieme a funzionari di Frontex, Eurojust, EASO e dell’Europol. Si è deciso di istituire queste nuove strutture nel Settembre del 2015, ed i paesi che dovranno ospitarle sono Italia, Grecia e Ungheria (dove si sono registrati i maggiori flussi migratori fino a quell’anno).
Il funzionamento dell’hotspot è semplicissimo: i migranti in arrivo verso l’Italia verranno reindirizzati nei vari hotspot (quelli meno pieni, in teoria), ed una volta sbarcati a terra e messi in sicurezza comincerà il processo di identificazione. Ogni migrante verrà fotografato e schedato, verranno prese le sue impronte ed una sua firma, ed eventualmente una copia del suo documento. Sempre nell’hotspot, si procederà per direttissima alla richiesta di asilo, che potrà essere rifiutata o accettata. L’infografica de Il Post, come al solito, vale più di mille parole.
Quindi, se la richiesta di asilo verrà accettata, il migrante verrà spostato in un “Hub Regionale” (nel nostro caso, leggi come Sant’Anna). In caso contrario, il migrante riceverà un provvedimento di respingimento. Il processo di identificazione e di richiesta di asilo deve avvenire entro 72 ore dall’arrivo del migrante in Italia. Questo vuol dire che i migranti, nell’hotspot, non ci staranno per più di tre giorni.
In poche righe abbiamo già smontato tutti i principali argomenti dei contrari-a-prescindere. Inizialmente, in molti palesarono dei timori relativi ai tempi “troppo ottimistici”, e sopratutto all’ipotesi che questi centri diventassero, in qualche modo, dei campi profughi giganteschi. Dall’altra parte ci sono le organizzazioni umanitarie, che vedono negli hotspot una palese violazione dei diritti umani, tanto da paragonarli a delle vere e proprie carceri.
In Italia sono attualmente attivi 4 dei 6 hotspot inizialmente previsti, quasi tutti in Sicilia (per ovvi motivi), che possono ospitare fino a 1500 migranti. Esistono numerosi report del funzionamento di questi centri, specialmente quello di Lampedusa, e non mancano ovviamente le criticità. Tra migranti che rifiutano di farsi identificare e leggi che impongono tempi troppo corti, si rischia di prolungare lo stato di detenzione, e, d’altro canto, di favorire l’eventuale fuga dei migranti (e dunque la loro clandestinità). Senza contare il sovraffolamento, specialmente del piccolo hotspot di Lampedusa, che ospitò circa 1600 migranti con appena 400 posti letto.
Nel Febbraio 2017 il Ministro degli Interni Marco Minniti ha annunciato l’istituzione di ben sei nuovi hotspot tra Calabria, Sicilia e Sardegna, tra cui figura quello di Crotone. L’apertura dei centri Calabresi è prevista tra Ottobre e Novembre di quest’anno, ed in totale i tre centri potranno ospitare fino a 1600 migranti. L’hotspot di Crotone, che ospiterà un massimo 800 migranti per la loro identificazione, dovrebbe sorgere presso l’ex caserma dei Vigili del Fuoco, sita lungo Viale Regina Margherita (per l’appunto, di fronte al porto).
Un po’ come è successo a Messina, dove tutti si sono scagliati contro il centro, anche da noi sono subito piovute le critiche. Non solo i movimenti di destra (si è interessato direttamente Berlusconi), ma anche alcuni sindacati, come la CGIL, hanno preso una posizione contraria sugli hotspot. Supportati anche da molti articolisti, redazioni e direttori locali, apparteneti ad uno di quei tanti giornali che ci sono a Crotone. Improvvisamente, dopo lo scandalo della Misericordia e del Sant’Anna, sono diventati tutti più attenti ai “diritti fondamentali” del migrante. Meglio così.
A questo punto, qualcuno potrebbe chiedersi: perché proprio a Crotone? La risposta è piuttosto ovvia, ed è riassunta nell’infografica postata un po’ più sopra. L’hotspot è una nuova struttura, indipendente dal Sant’Anna, che dovrebbe essere realizzata nei porti con il maggior flusso di migranti. E Crotone è uno dei porti dove arrivano più migranti. Per questo motivo, oltre all’ovvia vicinanza con il Sant’Anna, la città di Crotone si presta ben più di altre ad accogliere l’hotspot.
Prendere posizione non è facile. Da una parte, la necessità di sapere chi arriva (che, sia ben chiaro, è una cosa normalissima e giusta). Dall’altra, una macchina dell’accoglienza incapace di far fronte al flusso di migranti, che non è aumentato negli ultimi anni (anzi, sta andando diminuendo) ma che è rimasto invariatamente in una situazione emergenziale. A questo punto, l’emergenza non è più rappresentata dagli sbarchi in se, ma dall’incapacità organizzativa che, seppur operando in una condizione di forte stress, non riesce a garantire un sistema valido per gestire l’immigrazione irregolare. Nel mezzo ci sono tutti gli sciacalli di turno, che non perdono occasione per parlare di “taxi del mediterraneo”, di complotti vari e addirittura di destabilizzazione economica (giusto per ricordarlo, parliamo di un caso chiuso).
I Radicali, tra gli anni ’70 e ’80, parlavano dei cosidetti “corridoi umanitari”. Viaggi concordati tra i vari paesi, in modo da permettere ai migranti di non doversi servire dei trafficanti. Un’idea utopica, ma non del tutto impossibile, che non va abbandonata ma adattata per renderla funzionale. Non si possono chiudere i porti come si augura qualche malaugurato idiota, ne si può pensare di “farli entrare tutti” come ipotizza l’Economist. Va trovata una soluzione funzionale ad un problema quasi secolare oramai, e che riguarda l’Italia più di ogni altro paese dell’Unione Europea.
Gli hotspot violano i diritti dei migranti? Ni. Chiunque, andando irregolarmente in un qualunque stato al di fuori della UE, finisce in carcere se beccato. La detenzione preventiva è una cosa orribile, certo, ma se eseguita in uno stato di diritto è una soluzione che può andare. Non parliamo né di enormi campi profughi né di invasioni programmate. Parliamo di trovare una soluzione. E nessuno di noi ha la soluzione ideale in tasca.
Men che meno quei poveri fessi di Forza Nuova, che pensano di risolvere i problemi dicendo di no a tutto. Ma loro sono un’altra storia.
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