Crotone è una piccola realtà, ed anche a livello lavorativo non offre molti sbocchi. C’è chi, come il sottoscritto, arranca da ufficio in ufficio, da privato in privato, svolgendo le mansioni più disparate cercando di costruirsi una storia lavorativa solida, piena di competenze pur non collegate tra di loro: finisce così che da classico “tecnico” divento sempre più un tuttofare, ed anziché consolidare un ruolo mi ritrovo di volta in volta con una posizione diversa. C’è chi, dopo anni di studio, rientra nell’attesa di un concorso o di una chiamata in qualche ente locale, o comunque il più vicino possibile a casa. E poi, c’è chi si accontenta di avere un lavoro e basta.

Il principale datore di lavoro a Crotone è la Datel, della Abramo Holding s.p.a., un enorme call center che da lavoro a più di mille impiegati. All’interno è possibile trovare persone di tutte le età, dai neodiplomati ai padri di famiglia, dalle coppie sposate alle madri single. Di fatto, parliamo della principale fonte di reddito per centinaia di famiglie, ma sopratutto di un posto che ogni crotonese ha visitato almeno una volta nella sua vita. Sfatiamo un mito: gli stipendi non sono un granché, i contratti part-time (verticali o orizzontali che siano) celano dei turni di lavoro più lunghi, i dipendenti sono spesso e volentieri costretti a non prendersi le ferie e all’interno vige una sorta di “ierocrazia” fatta di capi settore, capi area e così via, che hanno potere diretto tanto sul personale assunto tanto sul personale da assumere.

Non avendo mai lavorato alla Datel, e non avendoci mai messo piede dentro, non saprei dire se queste voci sono vere o meno. Certo è che ormai da tempo frequento una comitiva che alla Datel ci lavora da anni, e queste voci sono più che confermate. Oltre ovviamente a numerose storielle simpatiche, che non fanno altro che confermare quei nomignoli come “canile” o “troiaio” che spesso si usano per indicare il luogo di lavoro. Storie di sesso, di ricatti, di compromessi indecenti fatti per ottenere un posto da operatore, per quel magro stipendio che tuttavia rappresenta una risorsa in questa terra, povera di denaro ma ancor più di spirito.

Sui call-center ne abbiamo sentite di tutti i colori: appena dieci/quindici anni fa rappresentavano il più grande ostacolo alla normalizzazione dei posti di lavoro, e un po’ tutti i sindacati li vedevano come l’esempio perfetto del capitalismo malvagio, che sfrutta la persona e nel contempo distrugge i suoi diritti sul posto di lavoro. Ci videro bene, i sindacati. Ma purtroppo questo sistema si è consolidato, ed oggi i call-center rappresentano un posto di lavoro come un altro, anche se a condizioni diverse.

Facciamo un paragone con il passato. Crotone, nell’ultimo secolo, si è guadagnata il titolo di città operaia. Moltissime persone affluirono in città per un posto di lavoro alle vecchie fabbriche, indipendentemente dalle condizioni di lavoro o dallo stipendio: l’imperativo era lavorare. A distanza di anni, la posizione dell’operaio si consolidò con contratti di lavoro adeguati, e sopratutto con l’esplicita dichiarazione dei diritti lavorativi. Basti pensare che un detto comune all’epoca era “meglio un operaio di un avvocato”, per via anche dei lauti stipendi e dei vari bonus destinati ai lavoratori di Montedison e Pertusola Sud (vacanze pagate, cesti di natale, prodotti alimentari e così via).

Oggi l’operaio a Crotone non esiste quasi più. O, perlomeno, non esiste più l’operaio che lavora in fabbrica. Di fatto, siamo tornati ad una situazione lavorativa precaria, e come in passato ci troviamo di fronte un grande colosso che attira lavoratori da tutta la provincia. Non è più una fabbrica, ma un call-center. La “classe media”, il lavoratore che cerca solo un impiego per uno stipendio, che baratta il suo tempo con il salario, non ha più una fabbrica dove fare domanda, bensì un fabbricato come tanti altri. Il lavoro fisico, considerato il più basso scalino della manualità, ha cambiato volto. Non si impugna più un badile, ma un mouse. Non si contano più le tonnellate prodotte, ma i minuti impiegati. Ed i call-center hanno sostituito le fabbriche, nel senso che sono loro, oggi, i centri gravitazionali del lavoro non specializzato.

L’operaio ha cambiato volto. Ora lo chiamiamo operatore, ma di fatto il concetto è lo stesso di sempre: è quella persona, uomo o donna che sia, che ha semplicemente bisogno di lavorare, e che in base a questa necessità è pronta ad accettare qualunque condizione. Semplicemente, proletariato. Le condizioni lavorative alla Datel sono note, ma visto l’alto numero di impiegati sono ben tollerate da sindacati, CAF e controllori vari: finché dà lavoro va bene, eventuali problemi, se verranno a galla, si affronteranno in futuro. Così come è sempre stato nelle fabbriche.

C’è bisogno di una presa di coscienza di questa nuova classe di lavoratori, necessaria per far progredire le condizioni degli stessi. Visto il numero, non dobbiamo e non possiamo considerarli “solo” come operatori del computer: questa sminuizione non permetterà mai alcun miglioramento della loro condizione. E mentre i sindacati conducono la loro battaglia ideologica contro i voucher, fanno finta di non vedere la condizione di questi lavoratori, sfruttati con un comunissimo CCNL. Facendo finta di non vedere i call-center hanno trovato terreno fertile, e probabilmente la Datel rappresenta uno dei volti migliori di questo ambiente, nonostate tutto.

E’ un mondo difficile, e lo sappiamo bene. Ma visto il centro gravitazionale che è la Datel, e visti gli anni di lavoro che ha alle spalle, dovremmo iniziare a chiederci se non è necessario un intervento radicale per dare più dignità ad un migliaio di lavoratori. Sempre questi lo vogliano, un salto di qualità.

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