Mentre vengono pubblicati diversi editoriali (c’è chi, molto ignorantamente, parla di indignazione ad orologeria, e chi come al solito farfuglia un po’ di tutto), l’unico degno di nota è quello pubblicato il 20 Settembre sul Crotonese, a firma di Antonella Policastrese. Si distingue da tutte le altre considerazioni per il semplice fatto che, oltre a parlare del mitico Zio Tonio, dice una serie di verità che spesso sfuggono ai più:

Che l’Italia viva più di calcio che di archeologia è un dato di fatto, ma che Crotone, grazie all’archeologia, possa ritrovarsi in attivo di un solo euro è oramai fantascienza.

Rompe il classico vetro di tutti quelli che pensano che con l’archeologia ci si possa “campare”. Sappiamo bene che la Cultura, in Italia ma sopratutto al Sud, non è un grande mercato. Non genera molto, tanto da far andare in rosso le casse dello stato. Come riportato anche nel libro Se muore il sud: «E’ accettabile che tutti i musei e tutti i siti archeologici calabresi messi insieme incassino in un anno 27.046€ … ?». C’è poi un’altro passo:

Sarà durissima tirarla giù una volta completata [la tribuna] e soprattutto senza che, una volta sgomberata l’intera area dello stadio, non un solo ciottolo dell’antica Crotone riemerga dalla polvere e venga degnamente valorizzato. Perché la riemersione costa, per la tutela ci vogliono ancora più soldi; per la valorizzazione occorrono miliardi.

Ecco, questo è un punto fondamentale, che vale in qualunque posizione: la riemersione costa. Non parliamo di vasetti, cocci e ceramiche, parliamo di intere aree oramai urbanizzate, sotto alle quali si trovano vecchie abitazioni, quartieri artigianali, necropoli. Non sono cose piccole. Voler mettere tutto in bella vista è illogico, insensato e pretestuoso. Non serve, e crea più danni che il resto.

E’ questa la doppia morale di cui vi parlavo. Mentre a Capo Colonna “coprire” i reperti era una cosa terribile, allo stadio “coprire” i reperti è una cosa che va bene. In molti dicono che tanto è tutto edificato! E che sotto tutta Crotone ci sono dei reperti! E noi lo sappiamo bene. Ma il punto non è il contesto, bensì il reperto in se. Ed è triste constatare che sono in molti a non cogliere questa ovvia differenza. Se ci sono le condizioni per cui un determinato reperto và esposto, si procede, altrimenti si copre. Lo stesso andava fatto a Capo Colonna, ma così non è stato, e dopo tanta guerra si è ottenuta la vana consolazione che a coprirli non sarà il cemento, ma ghiaia, terra e qualche sacco, fino a data da definirsi.

Detto questo, il discorso dello stadio verrà ricordato di certo per altri motivi, ma l’area archeologica al di sotto (che non è l’agorà, bensì un quartiere artigianale di ceramiche) non si muoverà di certo. Pensare ad un progetto di archeologia urbana per tirare tutto fuori è da pazzi, ma ci sono altri mezzi per poter valorizzare quei resti e per farli conoscere. E no, non parliamo dei soliti (e inutili) cartelloni informativi, ma qualcosa di più innovativo. Anche un degno sito web sarebbe un buon punto di partenza (prima c’era ArcheoCalabria, ma ora è andato perso purtroppo).

Quindi, la vera vexata quaestio è: cemento o non cemento? Come scrissi tempo fa, non è il cemento a seppellire la storia, ma l’ignoranza. Anche con uno strato di calcestruzzo, possiamo sapere cosa si trova sotto di noi, raccontarlo e provare a valorizzarlo. Perché “coprire” non è sinonimo di “male”, anzi.

Piuttosto che lottare contro il cemento, lottiamo contro l’ignoranza che dilaga in città, che forse risolviamo di più.

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